Nuovo capitolo di questo nostro viaggio alla riscoperta della grande saga di Tex Willer, il personaggio creato da Gian Luigi Bonelli e Aurelio Galleppini nel 1948 e che quest’anno festeggia il settantesimo anniversario di presenza ininterrotta nelle edicole.
Per questa serie di recensioni anno per anno della saga del ranger prendiamo in considerazione la numerazione della Seconda Serie Gigante, il cui primo numero risale al 1958, quella più venduta e amata dai lettori e che prosegue ancora oggi e che per quasi cento numeri ha riproposto le storie di Tex uscite negli albi a striscia dal 1948 fino alla fine degli anni ’60.
Dopo un’annata così forte e densa come quella del 1972 era plausibile attendersi un calo qualitativo e in effetti in parte c’è stato. Non che le storie di Tex di quell’annata siano brutte eh, per carità, ma generalmente non raggiungono le impressionanti vette degli anni precedenti.
L’apertura è affidata a L’ultimo poker, storia di un paio d’albi realizzata graficamente da Virgilio Muzzi aiutato, per quanto riguarda i volti di Tex, da Galep.
L’impianto è quello classico: Tex e Carson si imbattono in un ranchero vittima dei soliti raggiri anche con la complicità del figlio, il quale è caduto nel baratro del gioco d’azzardo. Dopo aver aiutato il ragazzo a ravvedersi, Tex sfida i gamblers in un torneo di poker all’ultima carta.
Storia tradizionale di Bonelli che si pone come semplice riempitivo (il che alle storie di Muzzi è capitato piuttosto spesso, va detto), in questo caso arricchita da alcuni momenti davvero interessanti come il grande torneo e la figura del figlio di Cardigan, ragazzo problematico caduto nel baratro dei debiti di gioco. E poi, nel finale, la frase, quella frase pronunciata da Tex che, se detta oggi, farebbe drizzare i capelli in testa a tre quarti dei lettori. Non approfondisco nulla: chi deve capire ha capito, chi non ha capito si vada a rileggere la storia.
Dopo questo buon riempitivo, arriva Una campana per Lucero.
Una banda di Apache Mescaleros sta compiendo numerose razzie senza lasciare alcuna traccia. Tex e i pards al gran completo conducono le indagini e scoprono che ci sono diverse cose che non tornano. Con il sostegno degli Apaches di Cochise, Tex e i suoi si imbattono in Don Fabio Esqueda, ricco possidente terriero che nasconde una seconda identità.
Storia amata da moltissimi che io invece non ho mai apprezzato più di tanto. Non per i disegni del funambolico Guglielmo Letteri, senza dubbio uno dei disegnatori più apprezzati di sempre, ma per il fatto che Bonelli, da buon narratore fluviale quale era, ha dilatato troppo i tempi, tirandola incredibilmente per le lunghe. Per questa storia sarebbero sufficienti due albi o due albi e mezzo e invece arriva fino a tre.
Peccato, perché su tutto c’è una cosa che funziona in maniera magistrale: la figura di Lucero, alias Don Fabio Esqueda, una delle migliori della saga texiana. Personaggio tutt’altro che manicheo, alla faccia di chi accusava Bonelli di fare cattivi troppo piatti, e divorato da un fortissimo dramma interiore. Epico e shakespeariano fino al midollo, Lucero si rivela un grande nemico per Tex e la sua fine è quanto di più drammatica e catartica si possa immaginare.
Una bella storia, insomma, a mio avviso tirata un po’ troppo per le lunghe.
Discorso opposto invece per la successiva San Francisco, storia che avrebbe meritato uno sviluppo maggiore che il povero Galleppini, oberato di lavoro, non avrebbe potuto garantire. Peccato perché parliamo comunque di una bellissima storia meritevole di svariate letture.
Tex e i suoi pards fanno visita alla città di San Francisco, dove avevano già vissuta una precedente e e avvincente avventura. Purtroppo l’ordine ripristinato non è durato a lungo e fra i nuovi malviventi fa la sua comparsa il losco Diamond Jim, il quale fa rapire Kit Willer dal capitano Barbanera. Questo è l’inizio di un’avventura che parte in città e che si conclude nel bel mezzo dell’oceano pacifico.
Bonelli, da grande amante del feuilleton ottocentesco, fa iniziare la storia in un modo e la fa finire in un altro. Purtroppo questo si nota quasi subito: la prima parte è piuttosto semplice e a Tex le cose girano bene sin da subito, non incontra praticamente nessuna difficoltà nel fare quel che fa. Questo perché la prima metà della vicenda è un semplice preambolo a quello che succede dopo, ovvero l’inseguimento di Barbanera.
Monumentali invece i disegni di Galep, il quale si trova perfettamente a proprio agio nelle atmosfere marinaresche e salgariane della seconda parte, sfoderando tavole di una bellezza indescrivibile. Si tratta sicuramente del periodo d’oro dell’artista e che sarebbe continuato ancora per alcuni anni.
Personalmente avrei preferito un inizio più stringato e invece uno sviluppo più ampio, ma devo accontentarmi di ciò che è uscito fuori.
Anche perché questa storia, in realtà, non finisce realmente qui perché al termine dell’albo Lotta sul mare inizia un’altra storia che parte esattamente da dove è terminata la prima.
Sto parlando de Il tiranno dell’isola, storia breve disegnata da Erio Nicolò che non raggiunge i livelli della precedente.
Tex e i suoi pards, in seguito alla tempesta che ha colpito il loro veliero al termine di San Francisco, finiscono in un’isola della Melanesia dove scoprono che un gruppetto di bianchi tiene sotto scacco un’intera tribù di nativi costringendoli ad affrontare gli squali per sfruttare un ricco giacimento di perle marine.
Pochi colpi di scena, se non per il fatto che i nativi guidato capo Mapua prima sono nemici di Tex e poi loro alleati, per una storia senza particolari pretese e che si regge su basi un po’ traballanti (possibile che una mezza dozzina di persone, di cui solo due armati di fucile, riesca a tenere in scacco una tribù composta da un centinaio di guerrieri?).
Non certo una prova maiuscola per Bonelli, il quale si concede questa escursione salgariana e prattiana (ricordiamo che alcuni anni prima aveva debuttato Corto Maltese proprio con Una ballata del mare salato ambientata nelle isolette del Pacifico) senza però crederci troppo.
Ci crede invece abbastanza Erio Niccolò, il quale svolge un buon lavoro di caratterizzazione dei personaggi, soprattutto del capo Mapua. Manca la spettacolarità delle scene di battaglia e dell’assalto alla villa dei cattivi, ma questo in fondo faceva parte del suo stile spesso sotto le righe.
Un po’ meglio la successiva Lo sceriffo di Durango, avventura che pigia l’acceleratore sul genere poliziesco.
Tex e i suoi pards salvano Lynda Dayton dalle mani di un gruppo di indiani e scoprono che in giro per il West c’è una banda impegnata a infinocchiare i gonzi mettendoli alla ricerca di un fantomatico tesoro spagnolo per poi derubarli e farli sparire. A orchestrare il tutto, un gruppo di soggetti poco raccomandabili.
La trama regge su pilastri estremamente traballanti (che per il West ci fossero un sacco di polli pronti a farsi spennare ad un tavolo da poker è cosa nota, ma addirittura un tesoro spagnolo?), ma vince e convince soprattutto grazie alla parte poliziesca. Molto interessante la silenziosa partita a scacchi fra la congrega dei cattivi e Tex, il quale alla fine riesce a risolvere il caso e a ripristinare la giustizia.
Bravo nuovamente Erio Niccolò qui alla sua seconda storia consecutiva, maggiormente a proprio agio rispetto alle isole melanesiane.
Una buona annata, insomma, purtroppo priva di quei capolavori che avevano caratterizzato il periodo immediatamente precedente e che avrebbero caratterizzato l’annata successiva di cui parleremo a breve.
Intanto se non lo avete ancora fatto potete leggere i resoconti delle annate precedenti:
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