«Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur arco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci d’altronde di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perché il suo amor proprio [amore della propria persona] non cesserà, e perché quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice, né in questo mondo, né in un altro.» (Lo Zibaldone, Giacomo Leopardi)
L’Infelice
Soggetto e sceneggiatura: Alessandro Bilotta
Disegni: Andrea Borgioli
Colori: Francesca Piscitelli
Copertina: Manuele Fior
dialogo tra Chiara Cveataeva e Giacomo Mrakic
GIACOMO: Il 4 luglio del 1776 il Congresso di Philadelphia promulgava la Dichiarazione d’Indipendenza. Nell’incipit, i Padri Fondatori, su spinta e volontà di Benjamin Franklin, indicavano chiaramente, tra i principali diritti del cittadino, il diritto dell’uomo alla felicità. Mai, prima di allora, nella storia delle Nazioni, un atto fondativo si era prefissato di tutelare la felicità del singolo. Questa grandissima innovazione traeva origine dal pensiero illuminista e dalla necessità di elevare l’uomo e la società dal classismo ed elitismo dell’Ancièn Regime. La tematica era molto sentita all’epoca tra gli intellettuali, non per niente, anche un altro grande contemporaneo di Franklin, Gaetano Filangieri, prefigurava la felicità nazionale come somma delle felicità dei singoli cittadini. Ma a questo punto ci si potrebbe porre la naturale domanda su cosa effettivamente sia la felicità; qui ci viene in aiuto un aforisma del pensatore tedesco (anch’esso contemporaneo di Franklin e Filangieri) Johann Gottlieb Fichte, l’autore dei Reden an die Deutsche Nation; tra le sue massime troviamo la seguente: «Non è vero che ciò che ci rende felici è buono; al contrario, solo ciò che è buono ci rende felici.» Da questo spunto possiamo iniziare il nostro itinerario nel quinto albo.
CHIARA: «Barlume che vacilla» per chi la guarda, «teso ghiaccio che s’incrina» per chi ci mette un piede sopra: così Eugenio Montale si figurava la felicità raggiunta. Ma quanto può essere felice la condizione di chi osserva un lumicino che langue, o di chi cammina su una lastra di ghiaccio crepata? Un supplizio, più che una benedizione. E se persino la felicità, in questa vita, è una condanna, allora a cos’altro ambire? Cosa rimane? Rimane la Verità, che è sommo bene del filosofo, la cui coscienza, però, è una coscienza infelice. E infatti, che la felicità sia una merce deperibile e facile ad avariarsi è una Verità atroce, cui si arriva filosofando. Il filosofo è un infelice. E l’Infelice è un filosofo.
GIACOMO: Il tema della felicità ha da sempre solleticato l’interesse dei pensatori fin dalle origini della filosofia e, ovviamente, non poteva essere trascurato come oggetto di riflessione all’interno di una serie tanto speculativa, ma anche in questo caso il nostro vulcanico Bilotta, tenendo fede alla sua visione manichea ed iniziatica, ce lo presenta analizzando proprio il principio opposto: l’infelicità. Questa interessante visione contrapposta, speculare, come nella filosofia taoista, con le figure antitetiche dello Yin e lo Yang, ci si rivela attraverso gli occhi di uno dei più interessanti personaggi mai apparsi in questa serie: l’Infelice.
CHIARA: Il personaggio è non meno interessante e singolare dell’albo intitolatogli. Il quinto numero, nell’economia della serie, può essere considerato quasi un unicum: Bilotta ci serve una storia con un capo e una coda, con un inizio, uno svolgimento e un epilogo in piena regola, contravvenendo così alla sua stessa prassi (cosa che a mio parere fa solamente qui e ne Il colore giallo).
È raro trovare numeri realmente autoconclusivi, in cui non appaiano discorsi aperti e mai chiusi, o discorsi chiusi ancor prima d’essere stati aperti. In questo caso abbiamo non solo un’ossatura narrativa bell’e rifinita, ma anche un personaggio doviziosamente ritratto, con una larghezza di dettagli quantomeno inusuale, per un autore tanto amante delle brume e della vaghezza.
La storia è presto detta: l’Infelice, filosofo fanatico dal volto orrendamente sfigurato, fugge dalle segrete pontificie e si unisce agli accoliti della sua setta, il cui unico scopo è quello di spargere per le strade romane una pandemia di tristezza (come ne L’uomo orizzontale e Il circolo degli intelligentissimi, la Roma mercuriale è un vivaio brulicante di improbabili settarismi).
I nostri untori godono di un naturale vantaggio: se la felicità è individuale, l’infelicità è condivisa. Chi è contento è contento per sé, e spesso conquista la sua felicità a spese di qualcun altro. L’infelicità è invece “democratica” come la peste: colpisce indistintamente nel mucchio, e chi ne è portatore è ammorbato e ammorbante, malato e contagioso. La vista dell’uomo triste intristisce: un talento involontario, che il mesto può volgere in arma letale.
Il potere appestante della malinconia diventa pietra d’angolo del piano che l’Infelice architetta: l’umanità intera è a suo dire un organismo unico, un unico corpo; basta inoculare il bacillo dell’infelicità in una singola parte perché presto si propali a tutte le altre membra. La logica quindi è: colpirne uno per rattristarne cento. A quale scopo? Quello di sgravare l’umanità dai ceppi dell’appagamento, perché solo così la si potrà liberare «dalle aspirazioni irrequiete e moleste, dalle opinioni irragionevoli… dal timore degli dèi e della morte» (p. 85). Cos’è infatti la felicità se non l’appagamento di un bisogno? E però il Bisogno ha un ventre senza fondo, per il quale non esiste sazietà possibile. Solo diventando sordi al suo richiamo, solo rinunciando a “salute, piacere, ricchezza, gloria” si arriva al sommo bene di una Verità che libera e redime, ma che esige la tristezza come tributo.
GIACOMO: L’Infelice è un antagonista sui generis per questa serie. Egli si presenta come il classico villain dei fumetti americani: ha un piano criminale articolato, una Weltanschauung ben definita, degli scagnozzi, delle origini chiare (è un professore di filosofia torturato dai Francesi durante l’occupazione napoleonica) e si presenta come la nemesi del protagonista. Possiamo azzardare un paragone: se Mercurio Loi e Ottone sono Batman e Robin, l’Infelice è il Joker. Come Joker ha il suo sorriso forzato in un ghigno, così l’infelice ha un’espressione che ricorda una smorfia di dolore, dovuta a delle cicatrici la cui provenienza ci rimanda al film Il ritorno del cavaliere oscuro e alla scena in cui Joker/Heath Ledger racconta di come se le fosse procurate: «Why so serious?». Ma più approfonditamente vi è un richiamo anche alle vere origini del pagliaccio del crimine, al film L’uomo che ride, trasposizione del romanzo omonimo di Victor Hugo, dove il sorriso artefatto del protagonista nasconde l’infelicità per la propria condizione di “diverso”, di “sfregiato”.
Ma l’Infelice è qualcosa, o meglio, qualcuno di più; è l’emblema dell’infelicità, come la maschera della morte rossa di Poe lo era della pestilenza, ma al tempo stesso è anche un’antitesi: di Joker, di Gwynplaine e, addirittura, data la sua presenza in Castel Sant’Angelo e la sua esperienza come vittima del governo francese, egli è l’antitesi di Cavaradossi ne La Tosca pucciniana. Cavaradossi finisce in Sant’Angelo innocente, mentre l’Infelice vi finisce ben consapevole della sua colpevolezza, sebbene paia cantare l’aria E lucevan le stelle con la medesima enfasi.
È molto interessante notare come l’Infelice appaia solamente a metà albo; lo precede un Loi ostaggio di una nostalgica Sehnsucht ottocentesca che ben si confà al nostro professore, con profondi richiami letterari al pensiero Leopardiano, a Novalis, a Coleridge, in un turbinio di pensieri che portano il protagonista a riflettere su come spesso l’infelicità sia dovuta ad una semplice imperfezione nello schema. L’Infelice, non ancora apparso, aleggia attraverso la sensazione da lui sprigionata, come una presenza maligna impalpabile, eppure ineludibile.
L’Infelice si manifesta prima per mezzo dei suoi scherani, poi personalmente, nella seconda metà dell’albo, arrivando a prendere la scena fino quasi ad offuscare Mercurio Loi. In questa parte abbiamo una vera e propria svolta narrativa; mentre la prima parte si svolgeva con la consueta posatezza del flaneur cui ci ha abituato Bilotta, nella seconda parte la storia assume tratti che ricordano i cinecomics all’americana, con omicidi, rapimenti, colpi di scena in sequenza che ci portano all’incontro tra il professore e la sua Nemesi, per uno scontro finale che non esiste, poiché l’infelicità è condizione eterna dell’uomo e che lascia aperti nuovi capitoli, chiudendosi con una mela ritrovata per le strade di Roma, simbolo del peccato originale, di quella superbia che sfocia nel titanismo dell’uomo romantico dell’ottocento, ma al tempo stesso frutto dal quale tutta l’avventura aveva avuto origine, con quella circolarità simbolica che tanto piace a Bilotta.
Opportuno evidenziare come la storia inizi dall’idea della piccola imperfezione come fonte di infelicità. Da una mela bacata si concatenano tante piccole occasioni di infelicità, seguendo un copione minuziosamente predefinito. Pensiamo alla teoria del Caos e al suo più famoso esempio dell’uragano generato dal battito di ali di farfalla dalla parte opposta del mondo. L’Autore, nell’esporci questo concetto per tramite dell’Infelice e del suo piano, ci illustra, prestando fede alle parole di Filangieri, quanto davvero la felicità dell’intera comunità sia dovuta alla felicità del singolo e quanto interconnesse siano le nostre vite, in un unico microcosmo cui ognuno appartiene e cui ognuno ha diritto alla propria felicità, che, per poter essere vera e sincera, deve essere condivisa.
CHIARA: Mmm, Filangeri, d’accordo… Ma credo che non si vada troppo in errore interpretando la filosofia dell’Infelice come una forma di epicureismo a rovescio: anche il filosofo del Giardino, col suo tetraphàrmakos, s’era ripromesso di curare l’umanità dal timore degli dèi, della morte, del dolore, nonchédalla morsa del bisogno (splendida la 59esima Sentenza vaticana: «Non è il ventre insaziabile, ma la falsa opinione sull’infinita avidità del ventre»). Di Epicuro, l’Infelice conserva premesse e propositi, ma ne capovolge le conclusioni: la Verità e la Saggezza, nella dottrina epicurea, sono sorgenti del solo vero piacere, mentre per il nostro sono scaturigine di una illimitata sconsolatezza.
Un’ultima notazione sul fronte visivo.Quest’albo compie un piccolo miracolo: una convergenza pressoché perfetta tra materia narrativa e resa coloristica. Le tinte fosche e crepuscolari ben si accompagnano alla storia più notturna della serie. Non a caso, vi fanno incursione poeti “serotini” come il Novalis degli Inni alla notte e il Leopardi che apriva il suo cuore affannato Alla luna, l’esangue signora e patrona di tutti i melanconici. Leopardi: come a dire il più contemplativo, il più “filosofo” tra tutti i poeti, scampato all’infelicità senza ritorno solo grazie alla lama affilata di un’Ironia Superiore, un po’ come il professor Loi, che a p. 97 risolve il sempiterno dilemma se la felicità esista o meno con un tagliente motto di spirito.
Anche i colori parlano qui un loro alfabeto. E quel violetto che fa da nota dominante sembra il perfetto correlativo cromatico dell’atrabile, o bile nera, l’umore fisiologico alla cui sovrabbondanza si è storicamente imputata l’insorgenza della malinconia, da Ippocrate a Galeno, sino al limitare dell’Ottocento, come Jean Starobinski ha illustrato nella monumentale, enciclopedica summa L’inchiostro della malinconia.
Bellissima l’associazione tra l’inchiostro, così simile all’umor nero, e la malinconia. E bellissimo anche chiuderla qui, con l’inchiostro che ci rinvia alla seppia, e nella fattispecie a quegli Ossi di seppia montaliani da cui ha preso le mosse la mia (felice) rilettura di Mercurio Loi numero 5.
E tra i consigli per gli acquisti ci piace ricordare qui il recente libro dell’amica Ilaria Gaspari, Lezioni di felicità edito per i tipi di Einaudi di cui potete leggere qui.
Leggi anche le altre Antilogie di Chiara e Giacomo!
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