Celestia (volume 2 di 2) di Manuele Fior

Scritto da Chiara Cvetaeva

6 Mar, 2020

Certe parole possiedono un’esattezza tale da risultare quasi taglienti, come se qualcuno ne avesse affilato gli angoli con polvere di smeriglio.

È il caso della parola rêverie, cara alla critica letteraria come pure alla psicanalisi. 

Dal francese rêve/«sogno», la rêverie indica la fantasticheria, il sogno fatto a occhi aperti, ma anche un processo di onirizzazione della realtà, che precede lo stato di coscienza, sebbene nel caso di Celestia sembri superarlo, aprendo una fessura su quanto può trovarsi al di là della coscienza.  

Celestia (volume 2 di 2)

Soggetto, sceneggiatura, disegni, copertina: Manuele Fior

Manuele Fior va oltre il reale, oltre il sognato, per muoversi a tentoni nel profetico. Come già nel primo volume (sempre pubblicato dalla benemerita Oblomov Edizioni) – laddove l’epigrafe iniziale di Brodskij valeva da lente per leggere la vicenda – così nel secondo, la citazione in esergo funziona quasi come una chiave per risolvere il rebus di parole ed immagini a seguire:

 

[…] distruggeranno Roma

e sulle sue rovine 

deporranno il germe

della Storia Antica.

Pier Paolo Pasolini, Profezia (da Il libro delle croci, 1964)

 

Non c’è niente che davvero accada in Celestia atto secondo. Il peggio è già avvenuto: l’invasione, sia pure coi suoi strascichi, sopravvive solo nei racconti di superstiti dalla pelle raggrinzita, e il racconto personale, per quanto vivido e fedele ai fatti, si contorna inevitabilmente di un alone favoloso; altrettanto lontana negli anni è poi quella lacerazione traumatica che ha fatto di Pierrot un campione di insocialità, carognaggine e frigidità affettiva.

I postumi di un’infanzia infelice richiedono lunghissimi tempi di smaltimento, ma sembra che per il nostro siano quasi maturati. In una delle tavole più belle e parlanti della storia, Pierrot riemerge dall’acqua di mare come da un bagno purificatore e sotto la radice del naso, dove avevamo lasciato una smorfia di scherno, troviamo finalmente l’accenno di un sorriso. L’acqua salmastra gli ha deterso il viso e al posto della lacrima artificiale che costituiva il suo make-up scenico di giovane arrabbiato non resta che la nuda epidermide.

Insomma, più che cronaca di fatti, Celestia II è cronaca di un’attesa: attesa di qualcosa che è vago, ma non in senso minaccioso. Per questa ragione, non può che richiamare alla mente il buzzatiano Deserto dei tartari, benché con un discrimine: se nella fortezza Bastiani abbiamo l’attesa estenuante del peggio, qui il peggio è alle spalle, e ha lasciato posto all’attesa di un avvenire senza nome, non priva di una certa dolcezza.

Le prime due vignette sono espressione superbamente icastica di quanto detto: con il Bambino della Terraferma che guarda in alto, Pierrot che guarda Dora e Dora che guarda avanti. Il presente si risolve nell’ineffabilità di un istante. È un presente liquido, che fluisce da tutte le parti, che s’ingrossa in ondate di piena o si disperde in mille rivoli.

Tra questa sostanza fluida e la forma pittorica con cui la si rende non poteva esserci una sovrapponibilità più esatta di quella che Fior ottiene attraverso la tecnica del guazzo, o gouache (e per chi scrive è molto facile farsi suggestionare dall’etimologia, che nel caso di “guazzo” corrisponde al latino volgare aquatio/aquationis, cioè “fornito d’acqua”). I contorni si fanno sfuggenti, per cedere il passo a plaghe di colori purissimi, di una brillantezza che abbaglia. Persino i balloon, arrivati a pagina 103, sembrano liquefarsi in lettere che si scindono goccia a goccia. Tutto si fa sfumato, indifferenziato, anche le fisionomie: quanto sono vecchi, certi bambini ritratti da Fior? Quanto sono infantili certi suoi adulti? 

Più che viverlo, un presente così, tocca intercettarne i segnali, carpire nell’aria i pollini che, spargendosi in ogni dove, faranno fiorire gli accadimenti futuri. Ecco perché chiunque può associare a questo presente una qualche simbologia, parte arbitraria e parte no. Ma l’autore sa schivare ad arte ogni rischio di astruseria: la simbologia di cui si serve ha il pregio di una leggibilità istantanea. È come un rio veneziano di cui l’alta marea ha ripulito le acque: profondo, ma trasparente. 

Non mancano di limpidità neppure i rinvii ai lavori passati: scoperto quello a L’intervista, ma ancora di più a Cinquemila chilometri al secondo, oggetto di una plateale autocitazione, che non è una di quelle citazioni con cui “ci si imbroda”, anzi ha una precisa ragion d’essere. Già in Cinquemila chilometri al secondo avevano fatto capolino molte delle tematiche passate in rassegna (il nichilismo cazzaro e post-adolescenziale del No future, quella possibilità di collegamento e comunione tra le menti ed i corpi che polverizza le distanze nel tempo e nello spazio). 

Nella sua interezza, Celestia trabocca di un ottimismo imprecisato, che non muove da proclami o da facili prese di posizione. Non c’è niente di concreto a confortare questa fiducia, salvo la constatazione che il peggio è passato, e non fa più male.

Questo è a mio parere il solo tipo di ottimismo che l’intelligenza non possa prendere come un insulto. Il solo che si possa sposare senza bisogno di essere imbecilli dagli occhi foderati o cuor contenti per natura.

Se ne sentiva un gran bisogno, e letture come questa sono una carezza per l’anima, come la carta satinata del volume è una carezza per i polpastrelli.

Più che una quarta di copertina, Celestia meriterebbe un bugiardino: funziona da analgesico quando ti duole la vita, ti duole l’umanità, ti dolgono il passato, il presente e il futuro. Assumere in dosi massicce per disintossicarsi dall’overdose di notiziari e rassegne stampa. 

E ringraziare l’autore. 

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