Prima di ragionare sulle figure dei soldatini di carta, sarà bene aprire un inciso sui loro facitori, specie se portano nomi tanto altisonanti come quelli di Hugo Pratt, Sergio Toppi, Dino Battaglia, Giorgio Trevisan, Guido Crepax.
Qual è la definizione più rigorosa ed esatta per un facitore di figurine? Nel porvi e nel pormi la domanda, torno con la mente a un saggio del 1972, che per chi si interessa dei linguaggi disegnati, dei disegni parlanti e dell’iconosfera in generale, resta un’insostituibile pietra miliare: Guardare le figure di Antonio Faeti, la cui pubblicazione presso il marchio torinese dello Struzzo fu caldamente patrocinata da un certo Italo Calvino. Per qualificare i disegnatori dei primi libri specificamente destinati ai ragazzi (come il Mazzanti, che lavorò alle illustrazioni ottocentesche di Pinocchio, o il Gustavino, che fu firma per la collana UTET de La scala d’oro) Faeti mutua una definizione di un vecchio illustratore fiorentino: Pietro Bernardini, che si compiaceva di parlar di se stesso come di un “figurinaio”.
Voilà: un facitore di figurine, ben si può dire un “figurinaio”, e non solo perché la parola rende lampante il “di cui” del suo lavoro, ma anche perché consente di stabilire una cerniera ideale tra il suo operato e quello dei suoi predecessori, protagonisti post-risorgimentali di una stagione in cui l’editoria per ragazzi e la stampa periodica avevano inondato il mercato librario di prodotti verbo-visivi tali, da rendere risibili, se non addirittura antistorici, i moderni battibecchi su “fumetto VS graphic novel”. Come rimarcato da Faeti, il “Giornalino della domenica” e il “Corriere dei piccoli” avrebbero colto i frutti ormai maturi di questa trascorsa stagione, pervasa anche da un’ansia pedagogica cui non sono certo estranei i nostri soldatini, pur mirando ben al di là dell’orizzonte educativo.
L’inserto soldatinesco “ritagliabile” segnò le annate del “Corriere dei piccoli” a partire dal 1959, quando alla direzione della “testatina” di via Solferino c’era Giuseppe Mosca, che ne aveva demandato la realizzazione allo storico Studio Dami. Non si trattava di un debutto a pieno titolo: l’inserto era stato preceduto dall’Album dei soldati di Domenico Natoli, edito negli anni tra il ’31 e il ’37, quando l’editoria per ragazzi nostrana aveva per target i piccoli balilla.
Soldatini di carta (ed. Comicout)
Si avrebbe gioco facile a liquidare i Soldatini di carta come un capitolo tutto sommato marginale, da confinare nelle retrovie della ricca e onorata produzione del Corrierino. E tuttavia, si commetterebbe una leggerezza: che la posta di quest’inserto andasse ben oltre il découpage o l’educazione militare dei giovani lettori è dimostrato dalla dedizione, dalla disciplina, dal puntiglio filologico-documentario con cui le più grandi firme del fumetto italiano d’allora vi si dedicarono. Ed è sull’apporto di ognuno di questi autori che si imperniano i diversi contributi del saggio Soldatini di carta. Le grandi firme del fumetto nel Corriere dei Piccoli,uscito nel novembre 2020 per la battagliera ComicOut di Laura Scarpa, qui firmataria del capitolo dedicato a Hugo Pratt. Alla pluralità degli autori è conseguente una pluralità degli sguardi: ne risulta un’opera polifonica, multifocale, in cui ognuno dà giusto risalto a ciò che ne ha solleticato maggiormente la fantasia, o acceso la curiosità o (perché no) mosso gli affetti giovanili. Soldatini di carta non è solo una pregiata lettura, ma anche un volume di pregio: lo è per il formato, per la grammatura della carta, per l’accuratezza dell’impaginato, per la generosa, anzi strabocchevole quantità di tavole illustrate, in cui un turbine di mostrine, pennacchi, galloni, vessilli, gagliardetti, grisaglie e panoplie vortica sotto gli occhi del lettore, che solo a fatica può vincere il raptus di armare la destra con le forbici e la sinistra con la colla vinilica, per ricostruire a tavolino la battaglia di Trafalgar illustrata da Crepax.
I cavalieri di Aldo di Gennaro, gli eserciti miniaturizzati di Sergio Toppi, il lontano west di Giorgio Trevisan, i soldatini d’avventura di Hugo Pratt, o i wargames ritagliabili di Guido Crepax: un immaginario multiforme, che si integra pienamente nel portfolio di ogni singolo maestro, mettendone in luce aspetti relativi sia alla produzione più strettamente fumettistica sia alla personalità e al vissuto. Un primo esempio, in tal senso, lo danno i numeri dal 17 al 19, usciti nel 1959, quando Trevisan (allora tra le leve dello Studio Dami) lavorò alla sua serie western ritagliabile, cavalcando l’onda del successo che Mino Milani aveva riscosso un anno prima con il suo cowboy Tommy River. Dalle matite di Trevisan, viene fuori un River dalle fattezze redfordiane, non troppo diverso da quel Ken Parker di cui il maestro avrebbe disegnato 18 episodi, oltre 20 anni più tardi.
In Trevisan, come in tutti gli altri autori di cui sopra abbiamo offerto una rapida carrellata, c’è una nota accomunante: tutti appaiono straordinariamente scafati in materia di armature e arsenali, tanto da poter tenere corsi accademici in uniformologia. Ciascuno, tuttavia, lo è per ragioni proprie: Toppi – ricorda Andrea Angiolino nel suo contributo – pur non amando la guerra, l’aveva studiata con eccezionale tenacia, a partire da quella del ’15-18, forse per saperne di più su quel padre perduto a quattro anni, per una tubercolosi contratta in trincea. Poi ci si era messa la vita, coi suoi casi inopinati: nel ’53, quand’era ancora un illustratore emergente, la madre gli aveva rimediato una collaborazione per un’Enciclopedia illustrata edita da Mondadori, e le otto tavole commissionategli riguardavano giustappunto “L’uniforme militare attraverso i secoli”.
Singolarissima, in questo senso, appare la posizione occupata da Dino Battaglia, cui Lorenzo Barberis dedica un capitolo dall’arguto titolo a chiasmo (La battaglia dei soldatini. I soldatini di Battaglia). Il disegnatore veneziano ha sì una grande meticolosità documentaria, ma per garantire ampi margini di manovra all’inventiva visiva, punta su epoche le cui divise non appaiano troppo rigidamente codificate, come accade per quelle degli eserciti moderni. I suoi antichi romani, i suoi normanni, i suoi egizi, i suoi lanzichenecchi, aderiscono soprattutto alle testimonianze artistiche delle rispettive epoche, il che comporta per Battaglia un doppio vantaggio: l’esaltazione (fedele e storicamente esatta) del valore estetico, e la libertà consentitagli dalla mancanza di quei vincoli rappresentativi imposti dalle uniformi d’epoca moderna.
Al polo opposto sembrerebbe collocarsi Pratt, per il quale sulla precisione di una mostrina, di un bottone, di una finitura, e insomma sulla vastità e scrupolosità della documentazione intorno a un’epoca e ai suoi costumi, poggiava la credibilità stessa della sua narrativa: non si trattava di conferire alle storie una verniciatura di realismo e di affidabilità storiografica; l’ambizione era più alta, e consisteva nel penetrare addirittura “lo spirito dei tempi”, fosse pure attraverso l’attaccatura di un bottone.
L’ultimo caso, con cui voglio chiudere il cerchio, è però quello di Crepax, che ben prima di disegnare soldatini ritagliabili per il Corrierino, li aveva disegnati per sé e per i suoi compagni di gioco infantili, come confessato a Marisa Rusconi su Linus nel 1968: «Passavamo notti intere a giocare con questi giochi costruiti dalle mie mani. Eravamo dei perditempo un po’ stupidi? Non credo. C’era tanta vitalità e curiosità in tutto quello che facevamo, che non esistevano confini tra gioco e lavoro. Se mai il gioco era la parte più seria del nostro modo di essere…» La confessione di Crepax, di una struggente e disarmante tenerezza, sembra suffragare a distanza di secoli quanto sostenuto da Montaigne, vale a dire che «i giochi dei bambini non sono giochi», bensì «le loro azioni più serie». Cosa aggiungere, in estrema conclusione, sui Soldatini di carta? Un gioco da adulti, forse. Ma soprattutto, un lavoro da ragazzi.
Cercatelo nelle librerie o procuratevelo dal sito di ComicOut qui.
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