E con Il colore giallo si conclude il nostro percorso antilogico che ha toccato così tutti i 16 numeri da edicola della serie dedicata a Mercurio Loi. Un dialogo reso bello, interessante e piacevole dal confronto serrato, scherzoso e pieno di spunti di Giacomo e Chiara. Siamo partiti dal numero 9 La somiglianza con una scimmia e da lì abbiamo seguito le pubblicazioni fino all’ultimo numero e poi siamo ripartiti da 1. Ora il nostro girovagare senza meta ci ha riportato a toccare il punto di partenza: a voi lettori continuare a trovare nuove strade tra le tavole, i colori, i commenti e le battute di una serie nata popolare per parlare di ciò che è più profondo e nata alta per guardare a ciò che è puerile ed effimero. Chiudiamo – sarà un caso? – da chi ha aperto per ben due volte le avventure di Mercurio: la coppia Alessandro Bilotta e Matteo Mosca introdotti da una delle copertine più belle (a mio giudizio) di Manuele Fior.
Le Antilogie di Mercurio – Il colore giallo. Mercurio Loi n.8
Soggetto e Sceneggiatura: Alessandro Bilotta
Disegni: Matteo Mosca
Colori: Francesca Piscitelli
Copertina: Manuele Fior
1.GIACOMO
Ne La teoria dei colori, Goethe vedeva nel giallo una “luce attenuata dalle tenebre”, considerandolo, insieme al blu, l’essenza stessa dei colori primari, da cui si generano tutti gli altri. Ma il giallo era ai suoi occhi anche la connotazione del principio positivo, in un’interessante unione tra scienza e filosofia. Questa visione oppositiva di giallo/blu, positivo/negativo, ci rimanda anche al pensiero di Bilotta, amante delle ambivalenze e delle contrapposizioni, che, ne Il colore giallo, riesce a costruire una storia di raro spessore e profondità per un fumetto di questo genere, fino a toccare, con intelligenza, il problema della fede, sondando nel profondo dell’animo umano per ritrovarvi il rapporto col divino.
La storia si caratterizza fin dall’inizio per la personalizzazione del colore giallo che, come una entità sovrannaturale, ci accompagna lungo tutto l’arco della vicenda. Questo espediente è molto interessante poiché il giallo diventa voce narrante, facendo capolino, con i suoi diversi toni, nel corso delle pagine, in una ambientazione autunnale e ventosa che infonde ancora più forza alle tonalità accese e decadenti della stagione romantica per eccellenza.
2.CHIARA
E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. […] Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.
Così vagheggiava una voce di donna ignota in quell’insuperata raccolta polifonica che è Lavorare stanca di Cesare Pavese (di cui il nostro copertinista prediletto ha illustrato le recentissime riedizioni einaudiane). L’assunto che i colori non piangano, per quanto fascinoso, resta tutto da dimostrare. Che invece possano avere facoltà di parola, mi persuade un po’ di più, non fosse altro che per la “prova etimologica”. A pagina 6, è il nostro Giallo entificato a ricordare, accreditandosi presso il lettore, che i latini lo chiamavano galbus egalbĭnus. La radice la rinveniamo nell’indeuropeo ghel-, vale a dire “splendente, brillante” ma anche “urlante”. Per questo, di certe sue tinte, si è usi dire che sono “chiassose”.
Anche Wassily Kandinsky, nelle pagine de Lo spirituale nell’arte, aveva dissezionato i colori uno dopo l’altro, descrivendoli attraverso una pura orgia sensoriale e facendone, insomma, cose vive, con una temperatura, una sonorità, una capacità di movimento loro proprie. Del giallo aveva fatto presente il calore e l’acutezza del suono, per poi passare a descriverne il movimento “centripeto”: “Se si disegnano due cerchi uguali e li si colora rispettivamente di giallo e di blu, basterà fissarli brevemente per notare che il giallo si allarga dal centro verso l’esterno e si avvicina quasi tangibilmente a chi guarda”. Tanto più si schiarisce, approssimandosi al bianco, quanto più irricevibile e accecante diventa per l’occhio di chi lo guarda (sempre ragionando per latinismi, d’altro canto, il bianco è un giallo “decapitato”, un galbus diventato albus).
L’immagine kandinskiana del cerchio che investe l’osservatore è la rappresentazione quasi plastica dei rapporti che intercorrono tra Mercurio Loi e il suo lettore: ogni singola storia e tutta la serie nel suo insieme si muovono come in una farandola indiavolata, secondo una forsennata circolarità; ogni albo gira intorno alla propria orbita, e sommandosi agli altri si fa simile a un sistema planetario. Per questo, ecco, Mercurio Loi non è semplicemente una serie in cui si enuncia una visione cosmologica. È, a suo modo, una piccola cosmologia a fumetti.
Consideriamo questo ottavo numero: qui il “raccordo anulare” della storia è garantito da quel pomo di bastone che, nella primissima pagina, si offre al Giallo come ricettacolo materiale (o chora, come l’avrebbe opportunamente definito il Platone del Timeo, non per niente chiamato in causa da Galatea a pagina 62) e che, sul finire, narra l’apologo dell’artigiano titubante, incapace di imprimere una forma definitiva al bastone da passeggio commissionatogli, che di modifica in modifica si perfeziona, sì, ma senza mai arrivare a compiersi, come nella migliore tradizione del non-finito michelangiolesco.
Di questa circolarità implacabile, di questa incompiutezza cronica, il Giallo è quintessenza cromatica. Il giallo di un’alba non sarà mai quello di un’aurora: tra l’uno e l’altro momento c’è come una sottile paratia. I colori di un’alba sono quelli di una tenebra che impallidisce, di una notte che termina il suo viaggio e muore. I colori dell’aurora sono quelli di un giorno che s’indora. Nell’uno come nell’altro caso, però, si tratta sempre e comunque di una sinfonia di gialli, con cui un cerchio si chiude e ancora una volta si apre, fino alla fine del mondo.
3.GIACOMO
L’aspetto forse più interessante della narrazione è dato, oltre che dalla circolarità che hai fatto presente, anche dalla “sospensione del giudizio”: l’autore non ci dà una soluzione, lascia che sia il lettore a formarsi il proprio parere sulla realtà dei fatti. L’apparizione su cui ruota la vicenda è avvenuta realmente? Questo spetta al singolo, poiché la fede è una questione personale e ciascuno di noi è chiamato a rispondere e a credere sulla base delle proprie sensazioni e delle proprie esigenze spirituali.
Proprio qui abbiamo pertanto uno scontro tra Mercurio Loi e Galatea; da una parte abbiamo la razionalità, la scienza, la capacità di sondare oltre la superstizione ben sapendo però che l’uomo è persona finita capace di pensare l’infinito; dall’altro abbiamo la necessità di voler credere, il bisogno di aggrapparsi a qualcosa, anche se falso, pur di poter trovare uno scopo alla propria vita. in mezzo a queste due distinte e contrapposte visioni, il colore giallo e il colore blu, come direbbe Goethe, si pone la figura probabilmente più interessante della Storia; il colore rosso; il vescovo Longhi. Longhi si presenta come la classica figura bonaria e forse anche un po’ scroccona, creando una sorta di stridore e di ironia rispetto all’aspetto cupo e grave che incombe sui personaggi. Nello sviluppo della trama però ci si rende conto che il vescovo è un personaggio per niente banale, con una grande profondità filosofica e con una apertura mentale che sembra quasi configgere con la visione che all’epoca permeava lo Stato Pontificio. La ricerca di Dio del Vescovo Longhi è genuina, e anche l’indagine che conduce parallelamente con Loi è sincera, rendendolo una figura brillante e sui generis, con una fede matura tanto da arrivare a concludere che egli si occupa di cose serie, non di superstizione.
Ma se il colore giallo può simboleggiare la verità, rappresentata anche e provocatoriamente dagli Scettici, la superstizione può ben essere rappresentata dal colore blu, primario e contrapposto. Come non vedere in questo aspetto un richiamo al fronteggiarsi di Sole/illuminazione e Notte/ignoranza, tipico della matrice gnostica cara all’autore, narratoci ne Il Flauto Magico di Mozart attraverso la lotta tra Sarastro e Astrifiammante? Non può essere un caso, anche tenendo conto della teoria dei colori, che le scene dove si manifesta più forte la superstizione vengano colorate in tonalità bluastre, come a sancire la sua presenza immateriale. Il blu è anche il colore della notte, quella notte nella quale il padre di Lucia recita la sua preghiera in mezzo ai campi. Quella preghiera, così sincera, fa però trasparire una fede acerba, legata alle piccole cose di tutti i giorni, incapace di vedere oltre i semplici beni materiali, terreni, così come quella lista dei beni richiesti in cambio di ogni cosa che la piccola Lucia deve fare.
Arriviamo infine ad analizzare l’ultima figura di rilievo di questo albo; Lucia, la veggente. Con un nome evocativo, che non può non richiamare Lucia dos Santos, la veggente di Fatima, anche Lucia è una contadina ignorante che si ritrova catapultata in una realtà completamente imprevista diventando vittima degli eventi.
Lucia è una ragazza semplice, che ama andare a guardare i barcaroli e che vorrebbe vivere la sua giovinezza come qualsiasi altra ragazza della sua età. Questi avvenimenti la scuotono profondamente, tanto che la libertà finale arriverà con un atto ribelle di Loi che riuscirà a farla sorridere in una sequenza muta che ci trasmette un profondo senso di libertà, poiché, come pare dirci l’autore, la fede, il divino, la verità, si nascondono nei piccoli semplici gesti del quotidiano, contrapposti appunto alle sovrastrutture e alle impalcature della superstizione.
Con questo scontro tra volere e dovere Loi riesce pertanto a liberare una fanciulla da un destino di oscurità, impartendo una lezione importante anche ad Ottone che, nell’ultima pagina dell’albo, verso un tramonto autunnale, si dirige insieme a Diana, avendo finalmente fatto pace con se stesso in una storia che senza alcuna remora possiamo definire come la più profonda dell’intera collana.
4.CHIARA
Siamo in totale accordo: anch’io la considero come la storia più bella, proprio perché il suo enigma di fondo si conserva intatto, e il suo nodo problematico rimane irrisolto. Da anni sono dell’idea che Mercurio ci chiami ad esercitare “la virtù della filologia”, che Nietzsche definiva “arte della lettura lenta” (e sull’argomento la sapeva lunga, praticando la filologia come disciplina e la filosofia come indisciplina). Eppure, anche leggendo ogni pagina con tutto il furore e l’invasamento esegetico che ci abbiamo messo io e te, certi coni d’ombra rimangono. Penso a quanto il Giallo dice di sé a pagina 48: «Posso esistere davvero non semplicemente quando faccio parte di qualcosa, ma quando la definisco». Ti convince? Mah… Un limone acerbo e verdastro resta comunque un limone, ma un “giallo limone” non sarà mai un “giallo cromo”, né un “giallo zafferano” sarà mai un “giallo Mondadori”. In che misura i definitori precisano le forme della realtà? E in che misura, piuttosto, le forme della realtà precisano i definitori? La logica, a ben vedere, è sì un’arma conoscitiva, ma di quelle spuntate. Ecco perché Loi, a colloquio col porporato Longhi, dichiara di preferirle la curiosità.
Il vero giallo, per noi, resta “il giallo Mercurio”. Che è simile a quello ialino e trasparente di un bicchiere di Moscato di Terracina. Perché come questo, anche a distanza di anni, resta beverino, rinfrescante, inebriante. E con un’effervescenza di lunga durata.
Chiudiamola in gloria, Giacomì, con la saggezza dei proverbi romani:
Anni e bbicchieri de vino nun se conteno mai.
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