Lo so, abbiamo già fatto una recensione de L’amica mortale, l’ultimo numero di Dampyr ora in edicola… ma poi Chiara Cvetaeva ci ha mandato il suo pezzo e ci ha regalato la sua lettura dei sovrasensi e della ricca intertestualità di questo piccolo-grande gioiellino e cosa potevamo fare? Pubblicarlo e offrirvelo a nostra volta!
Tempo e spazio formano un’unità inscindibile, tanto da aver originato il concetto di spaziotempo.
Per comprovarne la veridicità non servono formule e teoremi. Basta richiamare alla mente l’infanzia.
L’infanzia è un luogo, prima che un tempo. E non se ne esce vivi. Chi ne viene fuori, al massimo, è un sopravvissuto. Un sopravvissuto a se stesso, agli altri o alla vita. Più probabilmente, a tutte e tre le cose.
Si tratta di una materia difficile, per certi versi rovente, e non c’è luminare freudiano/lacaniano che possa accostarcisi senza il timore d’ustionarsi le mani.
Gli scrittori, per nostra fortuna, sono sconsideratamente estranei a questo timore. Vanno alla bersagliera. Sentenziano, sì, ma senza la presunzione di formulare una diagnosi. Chi scrive procede a tentoni, si pronuncia in via del tutto congetturale, solo per poter mettere al servizio del lettore una verità che reputa ammissibile.
Tra questo tipo di scrittore e questo tipo di lettore esiste un tacito patto. Entrambi convengono che “questa terribile verità è del tutto immaginaria” o – reversibilmente – che “quest’immaginario è terribilmente vero”.
All’eterna bagarre sulla letterarietà del fumetto reagisco ormai con uno sbadiglio. L’amica mortale può essere unta col sacro crisma della letterarietà per una ragione bell’e semplice: possiede il requisito dell’intertestualità. Lo si può ritrovare a un livello epidermico, in quei richiami che formano incrostazioni superficiali evidenti. Ma lo si può trovare anche a un livello sottocutaneo, in quei rinvii volontari o involontari, deliberati o subcoscienti che siano. Basta che il lettore li percepisca perché diventino veri ed operanti.
Cominciamo dalle evidenze più epidermiche tra tutte: il titolo e la copertina. Se il primo sogguarda alla Ferrante e alla sua fortunatissima saga, la seconda (di Enea Riboldi) guarda a quel numero della serie kenparkeriana cui nessun fan di Berardi può ripensare senza farsi venire i lucciconi agli occhi.
Puzza più un richiamo paludato che non un pesce avariato. In questo caso, invece, la scelta è avvedutissima, e opportuna come non mai: de L’amica geniale ritroviamo la complicatissima algebra di un’amicizia al femminile; di Adah rinveniamo il taglio diaristico, reso anche attraverso l’espediente grafico dei corsivi che inframezzano le vignette, restandone però separati, quasi a voler segnalare la loro diversità rispetto a delle didascalie ordinarie.

Sprofondandosi a un livello sottocutaneo, il ragionamento si fa molto più personale, e perciò stesso arbitrario. E forse è arbitrario, da parte mia, avvertire in quest’albo certe atmosfere asfittiche, mefitiche e strangolanticome quelle che si respirano nei primi capitoli di Jane Eyre, specie nella narrazione degli anni collegiali.
Magari è arbitraria anche la connessione tra i travestimenti scenici delle ballerine di pag. 58 e certi fotogrammi de Il cigno nero, film di cui sono udibili alcuni echi, specialmente per quanto riguarda l’irreggimentazione cui costringe la danza classica e la strisciante rivalità, il serpeggiante antagonismo che definiscono ogni vera amicizia femminile. Addentrandosi così a fondo nella testa di una donna, l’autore compie un azzardo. Però la spunta, e non perde di credibilità.
Ora, è necessario un chiarimento preliminare: L’amica mortale sta alla serie di Dampyr come una Matrioska di piccola taglia sta a una Matrioska di stazza maggiore. In una logica industriale, è seriale qualsiasi prodotto rispetti determinati standard di fabbricazione, così da risultare conforme ad altri prodotti della stessa linea. Ciò non significa, tuttavia, che il prodotto non possa avere una sua autoconsistenza, una sua personalissima ragion d’essere.
Con l’albo di Giorgio Giusfredi, il ragionamento fila come il fuso delle Parche: l’insieme dampyriano definisce la parte, ma per definire la parte non basta l’insieme dampyriano. Perché quest’albo è una cosa a sé, e anche se sono personaggi storici a prendervi parte, se ne porta allo scoperto una parte tanto intima da essere inedita, quindi nuova e discontinua, per quanto perfettamente inserita nella Matrioska di stazza maggiore.
Il personaggio storico di Ann Jurging viene ad assumere una fisionomia dai tratti più netti, proprio perché ne se scava il vissuto, portando sulla scena il suo legame ombelicale con la piccola Marlene (e qui si torna all’epidermide, perché l’associazione onomastica con la Lenù che è voce narrante, o meglio, penna scrivente de L’amica geniale, è istantanea). Sempre muovendosi nel folto sottobosco dei richiami, l’omaggio a Suspiria di Dario Argento è patente, ma volendo si potrebbe spalare ancor più in profondità, e scomodare dal suo sonno mortifero e oppiaceo sir Thomas de Quincey, dal cui Suspiria de profundis Dario Argento ha ricavato il materiale per la sua trilogia delle Madri. Sir Thomas ci ricorda che il tempo è infinitamente elastico, tant’è che “diviene ridicolo calcolarlo in termini commisurati alla vita umana… La misurazione per generazioni è ridicola, per millenni è ridicola, per cicli cosmici, arriverei a dire, ancor più ridicola”. Così i nostri ieri infantili divengono il nostro oggi permanente. Vale per Ann, che non è mai realmente sgattaiolata via dalla scuola di danza della Morkov, e vale per tutti. Peraltro, è sempre de Quincey a descrivere il dolore umano nei termini di una sacra trimurti formata da tre madri (Mater Lacrimarum, Mater Suspiriorum e Mater Tenebrarum, tutte con le carte in regola per poter essere scritturate nella serie di Boselli). E sempre de Quincey paragona le madri alla triade delle Erinni, le furie vendicatrici che, volendo, potrebbero anche essere ammansite, come di fatto riesce ad Ann.

Sono proprio le Erinni anguicrinite, nella spettacolare doppia pagina 26-27, a creare una robustissima cerniera col pregresso dampyriano.
Ma lo si è detto: questo numero ha “sangue e nervi”, quindi lo si deve considerare nella sua esclusività.
Una prima, personale impressione sull’usus scrittorio di Giusfredi è che, nell’esprimersi, punti molto sulla parsimonia: è essenziale, senza per questo risultare ellittico o peggio ancora oscuro. Da ogni dialogo o didascalia punta a ricavare né più né meno che il sugo, perseguendo un ideale di strenua “fedeltà alla cosa”. Quel che scrive, sembra essere sopravvissuto a un lungo, paziente lavoro di levigatura. Ogni parola è scampata alla pomice che tiene accanto al “calamaio” e questo va a suo merito, perché chi vuole essere onesto deve essere essenziale, e – d’altra parte – chi vuol essere essenziale deve essere onesto.

Concludo con i disegni di Alessio Fortunato. Ci sarebbe da agitare i turiboli fino a domattina, ma che sia bravo, immaginifico, meritevole di un padiglione alla Biennale e di un modello di biro intitolato alla sua persona è un fatto stranoto. Più che altro, mi preme osservare come la resa minuta delle ombreggiature sia, nel caso dampyriano, straordinariamente appropriata. Il reticolato fittissimo con cui Fortunato rende ciò che è buio per definizione è tanto impervio da meritare l’aggettivo di pluviale. Ed è bello che tanta cura venga riservata alla resa dell’ombra. Perché l’effetto risultante è felicemente paradossale: nella tavola, lo scuro diviene più evidente del chiaro, e quasi gli ruba la scena. Quindi ben s’addice, in chiusa, un certo Elogio dell’ombra:
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e assomiglia all’eternità.
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