Ed è con Il feticcio di fuoco, albo di Zagor di aprile edito dalla Sergio Bonelli Editore, che si conclude la lunga storia iniziata addirittura a gennaio con Monument Valley e proseguita lungo febbraio e marzo. Ai disegni troviamo la coppia composta dal curatore della serie Moreno Burattini e da Bane Kerac. Sempre nello stesso albo prende il via una nuova storia che dà il titolo all’albo e che presenta il collaudatissimo duo, anzi trio, formato da Burattini e dagli Esposito Bros.
Ho atteso un po’ a fare questa recensione per tre motivi: il primo sono state le centinaia di altre incombenze uscite in questi giorni, la seconda è che ho voluto rileggere l’intera storia dall’inizio per poter contestualizzare meglio il finale e la terza è che ormai posso parlarne liberamente senza temere di fare spoiler incauti.
Il feticcio di fuoco – Zagor n. 645
Soggetto e sceneggiatura: Moreno Burattini
Disegni: Bane Kerac (per Il mistero del pueblo) e Esposito Bros (per Un segreto nel passato)
Copertina: Alessandro Piccinelli
Già qui si pone un problema notevole, perché Monument Valley è una storia decisamente ambiziosa la cui lavorazione è durata alcuni anni e la pubblicazione è arrivata letteralmente al photo-finish, con tanto di albo tappabuchi (Lacrime nere di Luigi Mignacco e dei fratelli Gaspare e Gaetano Cassaro) inserito per permettere a Kerac di respirare durante la fase finale della lavorazione.
Sinossi generale: Zagor e Cico, dopo aver passato un periodo nel gelido nord, nello Yukon e in California [vi ricordate i tre Maxi collegati del 2018? n.d.r.], sono di ritorno a Darkwood passando per la Monument Valley. Si imbattono in una carovana sterminata dagli Apache e l’unico superstite è Angus Mc Fly. Quest’ultimo racconta di essere stato assoldato per una spedizione volta a scoprire un antico insediamento greco nel bel mezzo del deserto americano. Gli indiani hanno rapito la bella Julia Schultz e il terzetto si mette sulle loro tracce. Li attenderà una bella sorpresa, perché Julia è l’organizzatrice della strage ed è intenzionata ad intestarsi il merito della scoperta da sola.
Allora: calma e gesso. La storia dura tre albi e mezzo circa. Facendo la tara, sono quasi due ore della vostra vita. In queste due ore potreste guardarvi alcuni capolavori del cinema, leggere altre storie di Zagor, fare jogging, fare l’amore, ballare e quant’altro. La domanda è: vale tutto questo? Beh, a conti fatti sì.
Riletta tutto d’un fiato, si tratta di una storia sicuramente meritevole e con più di uno spunto di interesse: il primo è tutto il retrogusto storico, anche se fortemente romanzato, che sta alla base del racconto. Collegato a questo, c’è il rapporto a distanza tra la figura storica di Ipazia e quella di Julia Schultz: la prima ha rivendicato il ruolo della donna semplicemente avvalendosi della propria intelligenza, mentre la seconda ha commesso una strage. Non ultimo, un clamoroso errore di continuity che potrebbe dare il via a storie future.
Sul piano meramente narrativo, Burattini scompone la storia in due parti: la prima, più dialogata e introduttiva, e la seconda più improntata all’azione più sfrenata. Scelta azzeccata, anche se la prima parte risulta essere inevitabilmente più pesante della seconda e ci si chiede se non fosse stato possibile snellire un po’ i lunghissimi flashback per dare più spazio alla narrazione.
Burattini rende Zagor una sorta di implacabile, anche se qui è dettato dalle circostanze: uno solo dei nemici poteva rappresentare un potenziale pericolo e la posta in gioco è troppo alta per poter andare troppo per il sottile. Se vogliamo, la scena di Zagor che spezza il collo all’indiano di guardia è eccessiva, ma parliamo comunque di una pagina su trecento.
Se proprio volessimo muovere un paio di critiche a questa storia, è che, escludendo la rivelazione, non sconvolgente ma ben gestita, di Julia Schultz come artefice della strage, in questa avventura mancano alcuni colpi di scena degni di questo nome. Anche il finale, con il suicidio di Julia Schultz, che a me ha ricordato molto una storia di Guido Nolitta, alias Sergio Bonelli, intitolata Tigre, non era per nulla inaspettato, ma questa è un’opinione personale.
Altra cosa che mi ha davvero fatto storcere il naso, è il ritrovamento del tesoro: le pergamene che si sbriciolano rendendo vano tutto il viaggio non si possono proprio vedere, è una trovata che ho sempre odiato in qualsiasi contesto o situazione. Si tratta di una sorta di tacito patto fra autore e lettore: se l’autore mette in scena una trama tutta improntata al ritrovamento di un misterioso tesoro, il lettore si aspetta che questo tesoro alla fine venga trovato e che sia un tesoro degno di questo nome. L’autore è liberissimo di tradire le aspettative del lettore, ma in questo caso deve essere pronto ad accettare le urla della folla inferocita.
Va detto, come accennato in precedenza, che il ritrovamento del tesoro fa un po’ a botte con quanto rivelato in un altro albo, creando anche un piccolo problema di continuity, secondo me; chissà che non ci siano ulteriori rivelazioni.
Riguardo a Il feticcio di fuoco, per ora possiamo dire poco: si tratta del sequel diretto de L’araldo di Cromm, pubblicato su Zagor un paio d’anni fa sempre per mano di Burattini, ma con i disegni di Giuliano Piccininno, ai tempi alla sua prima e finora unica prova zagoriana (ne arriverà a breve una seconda, beninteso).
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