Siamo in estate e, come ogni anno dal 1988 a questa parte, il Texone di casa Bonelli approda nelle edicole italiane. I due fuggitivi, questo il titolo del volume firmato da Gianfranco Manfredi al soggetto e alla sceneggiatura e Giovanni Freghieri ai disegni, è disponibile da qualche settimana e rappresenta la classica lettura estiva per gli appassionati del ranger.
Vuoi per il grande formato, vuoi per i grossi nomi coinvolti, il Texone è da sempre uno degli appuntamenti imperdibili per i lettori e il titolo di quest’anno è molto atteso per diversi motivi: segna il ritorno di Gianfranco Manfredi sulle pagine di questa collana (sulle altre collane dedicate a Tex invece ha lavorato più o meno con regolarità) dopo che la sua prima e unica storia risale all’ormai lontano 2011 con Verso l’Oregon; segna l’esordio di Giovanni Freghieri, veterano del fumetto italiano, sulle pagine di Tex; ultimo, segna la ritorno di una coppia che ha già lavorato insieme in un Dylan Dog Gigante di metà anni ’90 per la storia Delitti a passo di danza.
Aspettative più che giustificate, dunque, benché di esse si debba sempre diffidare. Se sono state soddisfatte lo scopriremo alla fine.
I due fuggitivi – Texone n.38
Soggetto e sceneggiatura: Gianfranco Manfredi
Disegni e copertina: Giovanni Freghieri
Sinossi: Billy è un bandito della banda di Wade Gorman che tradisce il suo capo per fuggire con l’amata Josephine e rifarsi finalmente una vita lontano dalla violenza. Gorman lo insegue perché Billy ha rubato il bottino delle rapine, bottino che fa gola anche ai bounty killer guidati da Jeff Barnes. Per i due giovani in fuga le uniche speranze sembrano essere riposte in Doc Spaulding, sedicente mago della pioggia e, soprattutto, in Tex e Carson che sventano una rapina al treno organizzata dalla banda di Gorman e poi si mettono sulle tracce di Billy e Josephine.
Uno dei motivi per cui la stesura della recensione è stata ritardata a lungo è perché ho riletto il Texone più volte prima di poterne fare un’analisi definitiva.
Manfredi imbastisce una sceneggiatura tecnicamente ineccepibile (non proprio, dopo ne parliamo) ricca di scene, personaggi e spostamenti continui (i protagonisti praticamente si fermano giusto per dormire e per il resto sono sempre in giro) tirando fuori tutto il mestiere di cui è capace, ma l’effetto finale risulta asettico.
Spiego: la maggior parte dei personaggi è tratteggiata in maniera piuttosto superficiale per lasciare spazio all’evolversi della narrazione. In particolare i due protagonisti, Billy e Josephine, i quali dovrebbero ispirare l’empatia del lettore e l’apprensione per la loro sorte (si salveranno entrambi? Non si salverà nessuno dei due? Uno dei due si sacrificherà per l’altro?), risultano essere due figure abbastanza anonime alle quali, ma qui entriamo nel soggettivo, risulta difficile appassionarsi.
Un discorso analogo si può fare per le altre due famiglie della storia: il gruppo di Wade Gorman e i cacciatori di taglie di Barnes. Dei primi, l’unico che spicca per caratterizzazione in mezzo alla massa (all’inizio della storia sono una quindicina) è Shorty, apparentemente il più insignificante del gruppo che poi si rivela uno dei più infidi; dei secondi, ci si ricorda del solo Barnes in quanto viene nominato più volte.
Da grande conoscitore della materia narrativa, Manfredi non ha scritto tutti questi personaggi per il semplice gusto di affollare la scena, ma ha assegnato ad ognuno di loro una specifica funzione narrativa atta a far procedere la vicenda verso l’inevitabile finale. Ed è proprio questo il punto evidenziato sopra: i vari personaggi che affollano la storia ricoprono ognuno il ruolo assegnatogli secondo le basi della narrativa, ma sono privi di quella caratterizzazione che consente loro di bucare la pagina e trasformarsi da sagome a persone in carne e ossa. Il lettore sa che Billy, Josephine e tutti gli altri non sono reali, ma deve credere che lo siano.
Fanno parziale eccezione due personaggi decisamente riusciti come Doc Spaulding, personaggio che vive perlopiù grazie al lavoro fatto da Freghieri, anche se immagino che in fase di sceneggiatura Manfredi abbia dato diverse indicazioni per rendere ambiguo un soggetto come lui.
Altro personaggio ben riuscito è Kane, boss della cittadina di Wichita Falls. All’inizio viene presentato come il classico riccastro con un quintale di pistoleri sul proprio libro paga, ma poi si rivela essere dalla parte di Tex e gli offre aiuto.
Proprio il personaggio di Kane, per quanto sia ben caratterizzato, presta il fianco all’unica scena inspiegabile di tutto l’albo, ovvero la parentesi a Wichita Falls che ha un impatto quasi nullo sull’evoluzione della storia, se non per l’uccisione di uno dei banditi.
Questo è l’unico difetto tecnico, se così vogliamo chiamarlo, di una sceneggiatura altrimenti perfetta in cui le scene sono alternate con sapiente professionalità, dove Tex e Carson sono loro, con i consueti dialoghi che li contraddistinguono e dove non si verificano strafalcioni particolari o soluzioni grottesche appiccicate solo per far proseguire la vicenda. Sembra quasi che Manfredi, dopo aver scritto numerose storie con protagonisti eccentrici e sopra le righe (basti citare il recente Maxi Mississippi Ring e l’altro Texone Verso l’Oregon) abbia optato per una mimetizzazione: meno ingerenze dell’autore nel testo e più spazio dedicato allo sviluppo della storia.
Un Manfredi di puro mestiere e con il freno a mano tirato, quindi?
Forse, ma non per questo è un male perché dipende da ciò che desidera il lettore: chi avrà fra le mani questo Texone leggerà una storia western classica, concreta, senza eccessivi fronzoli e dai consueti ottimi dialoghi di Manfredi. Una storia in cui Tex e Carson sono dei duri al punto giusto e che fanno fuori gli avversari in una sequenza che ricorda certi classici di GL Bonelli.
Ci sono anche lettori per i quali l’immedesimazione nei personaggi, l’empatizzare con loro, comprenderne le motivazioni profonde e provare apprensione per le loro vicende costituiscono una parte integrante dell’esperienza della lettura.
Ed esistono anche quei lettori che va bene l’ortodossia di Tex, va bene la tradizione, va bene tutto, ma quando leggono sul tamburino il nome di un autore si aspettano di riconoscere determinate cifre stilistiche che qui, a parte i dialoghi e un paio di personaggi, latitano.
Versante disegni: Giovanni Freghieri è giustamente ricordato per la sua lunghissima militanza su Dylan Dog, una serie con la quale collabora praticamente sin dai primi anni della sua uscita in edicola, ma i suoi esordi, e non solo, sono stati nell’ambito del fumetto western grazie a diverse storie pubblicate negli anni ’70 e ’80 per la Universo e per i settimanali Lanciostory e Skorpio. Per cui il suo approdo sulle pagine di Tex rappresenta un ritorno alle origini per il disegnatore piacentino.
Il suo disegno, senza dubbio valorizzato dalle grandi tavole del Texone, presenta uno stile oscuramente luminoso perché Freghieri riesce a rappresentare le scene più oscure e apocalittiche, come quelle notturne o come le piste devastate dal temporale, con un chiarore arioso che si fonde con le linee contorte degli alberi distrutte, con i vestiti bagnati dei protagonisti e con la luce delle lanterne che si scontra con il buio della notte.
Il lavoro di Freghieri sopperisce a quanto manca in termini di caratterizzazione dei personaggi: viene in soccorso di quelli monodimensionali come Billy e Josephine ed esalta i soggetti più ambigui come Spaulding.
E poi c’è la rappresentazione di Tex e Carson. Se con il Vecchio Cammello il lavoro è quasi sempre facile (lo ripetiamo a rischio di sembrare noiosi: sbagliare Carson è praticamente impossibile), con Tex è tutto un altro paio di maniche, ma Freghieri centra la figura sin dalle prime pagine facendola crescere con il proseguire della vicenda al punto che, arrivati alla fine, viene quasi automatico pensare che Freghieri sia già un disegnatore classico del ranger.
Arrivato alla fine della recensione sono solito dare un giudizio complessivo dell’opera, ma questa volta riconosco che mi è impossibile. Un po’ perché più passa il tempo e più mi dico che dare giudizi definitivi non solo non ha senso (potrebbe essere definitivo per me, ma per altri?) e un po’ perché ho compreso che i giudizi non sono mai definitivi: ciò che penso di un libro, di un fumetto o di un film potrebbe cambiare, anche radicalmente, a distanza di anni.
Quindi nessun giudizio.
Nei paragrafi precedenti avete letto quello che ho trovato nel Texone con una manciata di inevitabili considerazioni personali, dato che è impossibile annullarsi del tutto.
Il giudizio, se non vi spiace, formulatevelo da voi una volta letto l’albo.
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