Dopo l’esordio dello scorso bimestre, Giacomo e Chiara continuano le loro antilogie intorno a Mercurio Loi e anche in questo numero non tutto collima… Voi siete per l’uomo orizzontale o per quello verticale? Un grazie sentito a Alessandro Bilotta per le discussioni che ci regala! E se volete continuare il confronto raggiungeteci nella pagina Facebook L’avventura a fumetti da A(dam) a Z(agor).
L’uomo orizzontale – Mercurio Loi n. 10
Testi: Alessandro Bilotta
Disegni: Francesco Cattani
Colori: Andrea Meloni
Copertina: Manuele Fior
dialogo tra Chiara Cvetaeva e Giacomo Mrakic
GIACOMO: Fin dal suo esordio in edicola Mercurio Loi ci ha abituato ad una visione del fumetto completamente diversa rispetto alla concezione che si può avere di questa forma di intrattenimento, andando a toccare punti di riflessione e di ragionamento molto complicati, che ne hanno fatto un punto di forza della serie (e forse anche un limite almeno dal punto di vista della complessità di contenuti a fronte di una società sempre meno improntata all’introspezione o alla trattazione di temi metafisici).
Le peculiarità di questo fumetto, però, non si limitano solo all’aspetto meramente speculativo dato dalla complessità dei temi trattati. L’innovazione va a toccare anche l’aspetto artistico del disegno, andando a cercare minuziosità stilistiche che risaltano solo ad un occhio attento e che creano un pregevole e ben strutturato binomio tra storia e disegno. Ecco, mai come in questo caso Mercurio Loi numero 10, L’uomo orizzontale, dimostra di essere un fumetto da leggersi a 360 gradi; e questo lo si può dire in tutti i sensi, visto che, già a partire dalla copertina, si può osservare come la storia si dipanerà, alternando tavole da leggersi orizzontalmente a tavole da leggersi verticalmente, nel senso ordinario, creando un piacevole movimento nella lettura, che fa da contraltare alla staticità del protagonista, obbligando il lettore a cambiare la posizione di lettura in un divertente movimento alternativo al solito sfogliare. Potrebbe sembrare scomodo all’inizio, ma, anche in questo caso, Bilotta trova sempre una ragione, che diviene improvvisamente esplicita solamente a pagina 90, mediante la speculazione filosofica del professor Mambor.
Questa dualità data da verticale ed orizzontale non si ferma solo alla lettura, bensì viene ad incastrarsi con precisione nelle immagini dove il nostro protagonista è adagiato sul divano, abbandonandosi ad un meritato riposo dopo le esperienze vivaci del numero precedente. Anche questo è un particolare di non poco conto. Mercurio Loi, per tutta la durata della storia, salvo la prima e l’ultima pagina, viene inquadrato solamente ed esclusivamente nelle tavole orizzontali, finendo per porci come sempre la domanda su chi sia realmente l’uomo orizzontale, se lui o chi gli sta intorno (se non addirittura lo stesso lettore spaparanzato sulla poltrona).
Per quanto riguarda l’avventura di questo albo Mercurio, solitamente attivo ed energico, questa volta resta in disparte, disteso a riposare, per tutta l’avventura, lasciando ad Ottone l’onore, e l’onere, di dipanare il bandolo della matassa. Una storia sui generis che però ci pone, come sempre, alcuni spunti di non poco conto che meritano di essere approfonditi.
Il primo spunto da analizzare è l’otium. In questa storia il nostro eroe sembra comportarsi quasi come vittima di una profonda depressione. In realtà il comportamento di Loi è da ascriversi al vero concetto latino di otium: un riposo indolente, ma mai negativo, bensì foriero di riflessione, una sorta di rilassamento delle membra che non fa mai venire meno la capacità deduttiva. Del resto lo stesso Catone il vecchio sosteneva che l’otium era la migliore delle virtù romane ed espressione perfetta del Mos Maiorum. Ma l’otium permette anche di affinare la mente, riposandola. Non è un caso che anche un omologo letterario del nostro eroe, Sherlock Holmes, alternasse momenti di otium (anche questi affini alla depressione) tra un caso e l’altro. In questo c’è un profondo richiamo alla realtà filosofica e sociale del periodo, con una sorta di nostalgica Sehnsucht, il male di vivere tipico dei Romantici, ma, al tempo stesso, si presenta anche quel legame con la romanità, con il mondo latino che, idealmente, prosegue nella Roma pontificia e nei suoi cittadini venendo a creare un’altra nascosta dualità tra antico e moderno.
CHIARA: L’uomo verticale ha gli occhi rivolti in avanti, l’uomo orizzontale in alto. Il primo sta alla vita attiva, e dunque alla storia, come il secondo sta alla vita contemplativa, e quindi alla speculazione. L’ozio, tra tutte le condizioni, è la più connaturale alla vita contemplativa: ce lo ricorda il Seneca dell’VIII dialogo (il De otio, per l’appunto), laddove si legge che la natura “non solo ha fatto diritto l’uomo, ma volendo, come io penso, per renderlo adatto alla contemplazione […] gli ha fatto la testa rivolta verso l’alto e gli ha dato un collo flessibile”.
L’ottimo Mercurio non è tanto sprovveduto da procurarsi un torcicollo: per potersene restare speculativamente in panciolle, si mette supino, si stravacca sul sofà, ed esibisce una calma olimpica mentre fuori, tutti gli altri, rincorrono affannosamente la Storia, illudendosi di farla e di tracciarne la rotta. In questo caso, a tentare il colpo di mano, è una bislacca organizzazione terroristica che insegue il miraggio di una rivoluzione senz’armi, con dimostrazioni di strada che ricordano gli happening situazionisti: al passaggio di porporati e pezzi da novanta, gli adepti si pietrificano come statue, creando degli ingorghi umani.
I popoli in rivolta non fanno la Storia. Al massimo si prestano a mandare in scena uno dei tanti copioni che la Storia – bontà sua – ha già scritto. Guardando in avanti, verso quegli “obbiettivi” che Bilotta chiama in causa nell’introduzione, mirano sì a qualcosa, ma alla maniera dei cecchini: centrato il bersaglio, annientato il nemico, il problema è risolto. Ma poi? È quel poi a far desistere l’uomo orizzontale, a impedirgli di schiodarsi dal divano.
GIACOMO: Ecco, l’hai detto. Un punto nodale è proprio questa conflittualità irrisolta tra l’orizzontalità e la verticalità. In questo caso è Ottone, che con la sua irruenza e intraprendenza vive nel mondo verticale, a fare da controparte al suo mentore, placidamente adagiato nella sua orizzontalità.
Questo binomio è tipico di un certo manicheismo di fondo, rappresentato anche dalle sagge parole di Galatea, che, come una pugnalata, riescono a colpire Ottone, arrivando fino in fondo alla sua anima.
Il numero due si ripresenta spesso in questo numero, non solo mediante la scelta di dividere le pagine, ma anche negli avvenimenti che toccheranno il giovane Ottone nel suo peregrinare per la città. Così, a pag. 64, con un certo richiamo ai disegni di Pratt (specificamente ad una scena di La casa dorata di Samarcanda) Ottone si ritrova in un buffo inseguimento in compagnia di Leone, il famiglio del professore. Questa dualità viene ancora una volta ben rappresentata sempre dal compagno di Ottone e dalla sua ricerca del vero e del proibito, che lo porterà di fronte ad una scelta che dovrà pagare duramente. Un ultimo, importante, richiamo al numero due è dato infine dalla situazione sentimentale di Ottone, che, spossato dagli avvenimenti, dovrà decidere se cedere alla passione effimera o all’amore ragionato.
Il terzo ed ultimo aspetto è dato dal contorno storico, Roma, la muta protagonista di questi albi, con la sua società e la sua particolare realtà del periodo pre-risorgimentale. Questo è, a mio modesto giudizio, l’unico aspetto ad avermi lasciato dei dubbi e delle riflessioni, sia di carattere morale che filosofico. Indubbiamente la Roma Pontificia dei primi anni dell’ottocento ben si presta alla realtà carbonara, ben rappresentata dall’esuberanza dell’irruente Ottone, così come l’ambientazione ben si amalgama con gli avvenimenti dei vari personaggi rendendo un unicum realistico e credibile a livello storico. Così resta plausibile anche l’idea della congiura degli “inerti”, una congiura che ci porta a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni e delle nostre “non azioni”.
Come magistralmente espresso dal capo dei congiurati sul finire dell’albo: anche scegliere di non agire è di per sé una scelta.
Questa riflessione ci mette di fronte a quanto sia importante non solo il nostro comportamento, ma anche come ci poniamo di fronte alla realtà che ci circonda. Scegliere di non fare il male non ci mette automaticamente dalla parte dei buoni se, con la nostra accidia, con il nostro non agire, con il nostro “lasciar vivere”, lasciamo che i cattivi prevalgano. E qui entra in ballo il famoso sermone del pastore Martin Niemöller (erroneamente attribuito a Brecht) sulla responsabilità di ciascuno di noi anche nel silenzio di fronte all’ingiustizia. Questa riflessione, che può sembrare molto semplice, è in realtà l’uovo di Colombo dell’intera storia e ci pone di fronte ad un universo dove non esistono buoni e cattivi, ma solo scelte, le cui conseguenze possiamo comprenderle solo dopo averle fatte, o non fatte. E anche qui ritorna la dualità: bene o male dipendono solamente da noi.
In conclusione, assodato che il numero due è il filo conduttore di questo intero albo, a questo punto ci rimane un’unica domanda; una domanda senza risposta, che, a mio giudizio, è l’unico punto debole dell’albo; e la domanda è: perché? Perché questa setta? Cosa vuole? Cosa si prefigge? La risposta non ci è data, ma, confidando nell’immaginazione vulcanica e nella minuzia certosina di Bilotta, siamo sicuri che questa domanda troverà risposta nelle altre avventure del nostro eroe, venendo a colmare probabilmente l’unico gap di un albo veramente interessante e dai risvolti che finiscono per toccare non solo aspetti filosofici ma anche morali.
CHIARA: Francamente, caro socio, i tuoi argomenti non mi convincono del tutto, a partire dalla valutazione dell’orizzontalità di Loi, che non può risolversi in un’inazione tout court. Mercurio non rinuncia alla sua propria rivolta: Albert Camus ci insegna che il rivoltoso è, in prima battuta, “un uomo che dice no” e poi precisa: “non tutti i valori trascinano con sé la rivolta, ma ogni moto di rivolta fa tacitamente appello a un valore”. Quando Mercurio, a pag. 57, confida al suo prezioso Aldelchi che “in un mondo che corre, fermarsi è un atto eversivo”, rivela di non aver rinunciato alla sua ribellione, ma di volerla mandare avanti alla sua maniera.
Eversione è riappropriarci del nostro tempo a dispetto dei tempi in cui viviamo, in barba a un’epoca che ci vuole tutti scattanti come sprinter e resistenti come maratoneti, come se la vita fosse una gara podistica cronometrata. Perché? Arrivare alla fossa sudati e trafelati è forse un merito?
Eversione è scialacquare allegramente intere ore a rimirarsi l’ombelico, in un mondo che ci vuole competitivi e produttivi.
Eversione è scegliere di starsene fermi. In questo senso, ha mille volte ragione William Burroughs quando dice che “la cosa più pericolosa da fare è restare immobili”. L’immobilità è pericolosa in quanto attenta nientemeno che all’ordine del creato, alla legge suprema del tenersi occupati a ogni costo.
Veniamo alla setta che prende a scombussolare una Roma più felliniana che pontificia (scusa Giacomì!). Ne è animatore un uomo d’azione e di intelletto, se vogliamo un “ideologo”. La storia ci insegna che gli intellettuali mossi da grandi visioni, si sono sempre serviti delle masse in tumulto come di carne da macello, in nome del “necessario”, in nome dell’“obbiettivo”. La chiave di volta per intendere quest’ultimo aspetto ce la fornisce il barbuto (e barboso) Ludovico, nel momento in cui domanda a Ottone cosa secondo lui sia necessario, prima di destinare i suoi a un bagno di sangue.
Mercurio è un amabile stronzo, ma non è un macellaio. È ghiotto di frattaglie, ma solo di quelle bovine: per il resto, non gli piacciono gli sbudellamenti. Rifiuta di fare la sua comparsata in una delle tante repliche della (solita, vecchia) Storia. Però non rinuncia. Pensa, ripensa, e venuto a una conclusione, si alza, esce e ritorna all’azione. Quale? È bello dover aspettare un intero bimestre prima di poterlo sapere. Questo finale, quindi, non è un “gap”, ma una conclusione perfettamente coerente, che volendo si potrebbe anche accogliere come un ultimo affondo sovversivo di Loi. Nel mondo del “tutto e subito” Mercurio ci costringe all’attesa, fregandosene dei “tempi morti”.
Leggere abitualmente Mercurio Loi è un atto eversivo, come “imparare le poesie a memoria, preferire i paesaggi agli indirizzi, i ricordi alle date”. Un fumetto che richiede una lettura tanto attenta, che pizzica corde tanto difficili, che fa risuonare echi di Seneca e Camus, ci costringe infatti a coltivare una virtù ormai tanto impopolare da poter essere considerata rivoluzionaria: la pazienza.
Ci vuole coraggio a proporre un prodotto del genere in un’epoca in cui dalle letture si pretende sempre più “immediatezza”, “scorrevolezza”, “godibilità” e “svago”. Ci vuole coraggio a navigare controvento. E questa serie ne ha.
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