Dylan Dog Old Boy n.1 (giugno 2020)

Scritto da Francesco Benati

16 Giu, 2020

Da una manciata di giorni è in edicola il primo numero di una nuova collana dedicata a Dylan Dog della Sergio Bonelli Editore. Si tratta di Dylan Dog Oldboy, albo d’esordio di un nuovo bimestrale che contiene al proprio interno due storie inedite dedicate al DyD più tradizionale, classico e incontaminato. La prima storia, Il migliore dei mondi possibili, è scritta da Gabriella Contu, mentre la seconda, La solitudine del serpente, da Barbara Baraldi, due conoscenze ormai note ai lettori dell’Indagatore dell’Incubo. Ai disegni di entrambe le storie abbiamo i pionieri del classico e della tradizione: il duo Montanari&Grassani. La copertina è affidata ad un altro duo: i fratelli Raul e Gianluca Cestaro.

 

Raul e Gianluca Cestaro

 

Prima di cominciare, due parole sul nuovo Dylan Dog Oldboy: si tratta della nuova veste dell’ormai defunto Maxi Dylan Dog che esce in un nuovo formato (due storie complete e inedite) e in una nuova periodicità (bimestrale), ma, sostanzialmente, con la stessa formula: presentare storie che raccontino il Dylan Dog classico, senza i cambiamenti apportati sulla serie mensiel da diversi anni a questa parte. 

La cura è affidata a Franco Busatta con la consulenza e la supervisione di Roberto Recchioni, attuale curatore di Dylan Dog e, ovviamente, di Tiziano Sclavi, il creatore del personaggio.

Prima di iniziare a parlare delle due storie, tocca fare una inevitabile premessa: questo pezzo non inaugura la serie di recensioni dedicate al nuovo bimestrale dell’Indagatore dell’Incubo. Magari lo farà involontariamente, ma le future recensioni, se mai ci saranno, verranno portate avanti da altri autori e non dal sottoscritto. Le ragioni sono le più disparate e, se permettete, sono fatti miei.

 

Il migliore dei mondi possibili


Soggetto e sceneggiatura: Gabriella Contu
Disegni: Montanari & Grassani

Una delle tematiche care a Dylan Dog è che l’orrore spesso si nasconde là dove tutto sembra bello, pulito e scintillante. Dove tutto sembra perfetto. 

Sembra. 

Perché non lo è.

In questa prima storia, Gabriella Contu ci presenta una versione dylaniata di 1984 di George Orwell. Chi ha letto quell’immortale capolavoro della letteratura sa che è estremamente valido ancora oggi, anzi, soprattutto oggi dove la comprensibile esigenza di decoro collettivo si sta trasformando in un’ossessionante desiderio di legge e ordine.

Siamo in una Inghilterra alternativa, un’Inghilterra in cui tutti sono giovani, belli e prestanti, in cui la nazione versa in uno stato di autarchia totale, in cui Londra sembra essere il faro della cultura e della civiltà contrapposta al mondo esterno, mostruoso e pericoloso. In questo scenario al limite del paradisiaco si muove Dylan Dog, contraddizione vivente in quanto disoccupato: che senso avrebbe ricorrere a un investigatore privato in un mondo perfetto dove non si verificano crimini e omicidi? Dylan, però, è l’emblema dell’inquietudine e pian piano inizia ad accorgersi che qualcosa non va, che dietro quella patina di perfezione si nasconde l’orrore più nero.

 

Montanari & Grassani

 

Gabriella Contu ci trascina in un viaggio nei bassifondi dove emergono tutte le brutture e le storture dei nostri tempi. Incredibilmente profetica, la Contu ci racconta una storia che, seppur scritta tempo fa, ha dei forti richiami con l’attuale pandemia di Coronavirus. Non in maniera diretta, ovviamente, ma alcuni passaggi del racconto rimandano direttamente alla quotidianità che stiamo vivendo. 

Una storia fortemente ancorata alla tradizione, insomma, che ricorda quel periodo in cui in un albo c’era Dylan Dog che moriva, quell’altro in cui rimaneva l’ultimo uomo sulla Terra, quell’altro in cui fronteggiava un’apocalisse zombie. 

Parlerei volentieri anche dell’unica “pecca” (notare le virgolette) del racconto, ma evito perché incorrerei in uno spoiler enorme, quindi passo il turno.

 

La solitudine del serpente


Soggetto e sceneggiatura: Barbara Baraldi
Disegni: Montanari & Grassani

Avete presente la pizza margherita? Sì? Bene.

L’avete mangiata quante volte? Dieci, cento, mille? Chissà, forse anche di più.

Eppure la continuate a mangiare, spendete sempre i vostri cinque euro e lo fate sempre più o meno volentieri.

Lo fate perché la pizza margherita vi piace e, al massimo, direte che è colpa del pizzaiolo se per una volta non viene bene, mentre gli farete i complimenti se verrà particolarmente buona.

Ecco, La solitudine del serpente è esattamente questo: una buona, buonissima pizza margherita classicissima, vecchia come il cucco, ma che, per quanto vorresti negarlo, ti piace sempre. E a cuocerla c’è una pizzaiola esperta che sa come prendere il proprio cliente per la gola.

Una misteriosa catena di delitti sconvolge Londra. Un nuovo serial killer è arrivato nella City e ogni uccisione porta una firma macabra: il volto delle vittime viene strappato via. L’ispettore Bloch non sa che pesci pigliare perché non riesce a ricordare il volto del probabile omicida da lui incontrato in un pub, così si unisce a Dylan per scoprire la sua identità. La coppia di sgangherati investigatori, affiancata da Groucho, rovisterà mezza città, mentre lo spietato assassino continuerà a colpire.

 

 

Barbara Baraldi, autrice della quale leggo praticamente tutto ciò che esce (a proposito, fate immediatamente vostra la trilogia della profiler Aurora Scalviati edita da Giunti, ma anche Scarlett, Striges e tutto il resto, tanto non vi sbagliate), crea una trama che più classica non si può e che vince proprio grazie a questo aspetto. Dylan e Bloch che agiscono in coppia come i migliori detective dei serial polizieschi è sempre un bel vedere, alcuni personaggi bizzarri tipici della serie, una sequela di battute infinite per Groucho, per non parlare del maniaco di turno la cui identità rimane un mistero fino alla fine. Non mancano, anzi abbondano, le citazioni prese dalla cultura pop (e non solo) che vanno da Stephen King ai Metallica, passando per Poe e Lovecraft.

E alla fine, come nella migliore tradizione dylaniata, si arriva a provare un pizzico di compassione anche per il mostro. Nelle 94 pagine della storia c’è addirittura spazio per il cliffhanger conclusivo di sclaviana memoria.

Naturalmente farei un torto a La solitudine del serpente se la bollassi come un banale rimescolamento di situazioni già viste. Gli elementi distintivi non mancano: se la storia inizia come un thriller/horror parecchio splatter, ma ancorato alla realtà, nella seconda parte fa il suo ingresso la dimensione soprannaturale che, almeno a mia memoria, presenta un paio di scene mai viste prima d’ora (non ne posso parlare per non incorrere nei maledetti spoiler). Abbiamo anche una che mostra un Groucho sorprendentemente cupo e poco incline alle battute. Magari non una novità assoluta, ma senza dubbio una rarità.

Una bella storia in pieno stile Dylan Dog, insomma, ricca di quelle situazioni che i lettori amano e che desiderano ritrovare ad ogni avventura e con qualche tocco di originalità. 

 

Versante disegni

Giuseppe Montanari ed Ernesto Grassani, noti al grande pubblico come Montanari&Grassani, abituati a lavorare in coppia da decenni, sono una vera e propria colonna portante di Dylan Dog. Probabilmente i disegnatori con il maggior numero di albi all’attivo (non mi sono messo a fare un conteggio preciso, ma tra loro e Corrado Roi la lotta è dura), sono l’emblema assoluto della vecchia scuola. Chiari, leggibili e senza troppi grilli per la testa, hanno realizzato le due storie di questo albo con la consueta professionalità.

 

 

Certo, stiamo parlando di una coppia di disegnatori in cui il più giovane ha settantaquattro anni, quindi è inevitabile che il loro stile risenta dello scorrere del tempo e che qui e là siano presenti diverse incertezze nel segno, soprattutto per quanto riguarda le scene più movimentate che finiscono col risultare spesso statiche e impacciate. Ciononostante, per me che una delle mie prime storie di Dylan Dog è stata Le notti di luna piena e che fra le mie preferite annovero La zona del crepuscolo, è del tutto impossibile valutare negativamente il dinamico duo che sicuramente fa parte da tempo, e giustamente, della Storia del fumetto italiano.

 

Giudizio finale

 

Sarà l’effetto da numero uno, sarà che sono un ammiratore di entrambe le autrici, sarà che il vecchio Dylan è sempre il vecchio Dylan, fatto sta che questo primo albo dell’Oldboy viene promosso a pieni voti.

Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una coppia di storie come tutte le altre e che nulla aggiungono e nulla tolgono alla lunga saga dell’Indagatore dell’Incubo. In parte è vero, ma è altrettanto vero che è proprio su questo tipo di storie tradizionali, pur nella loro originalità, che si fonda il mito ultra-trentennale di Dylan Dog.

Direi un bel 7.5 complessivo.

Muti, mani al cielo e tutti a casa.

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