Nel blog FumettiAvventura abbiamo seguito solo in modo saltuario le varie testate di Dylan Dog e del resto non si può essere tuttologi, ma è inutile negarlo, tutti quelli che scrivono o hanno scritto per FumettiAvventura hanno avuto una fase ‘Dylan Dog’ nella loro vita di lettori di fumetti ed è altrettanto evidente che tutti noi abbiamo in varie forme un debito di riconoscenza verso l’indagatore dell’incubo. Ci è sembrato giusto quindi proporre una recensione a più voci (4 come le copertine diverse con cui si presenta in edicola il numero 400) con lettori e recensori di varie età e con storie ‘dylandogghiane’ diverse, non dico che ci sarà coincidenza con i periodi dei copertinisti… ma ci andremo vicini!
Eccovi allora la recensione dialogata a 4 voci (come se fossero le Tusculanae Disputationes di Cicerone o le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo). Protagonisti: Lorenzo Barberis (che ringrazio moltissimo per la disponibilità), collaboratore di varie testate tra cui Lo Spazio Bianco nonché blogger per il suo stesso blog dove ha già fatto una ricca disamina del numero 400, Chiara Cvetaeva e Giacomo Mrakic abituati da tempo a dialogare su Mercurio Loi e dintorni con le loro antilogie e chi vi scrive, nonché ideatore di questo blog, Paolo M.G. Maino. Buona lettura, ma prima leggete il numero 400… ovviamente! E bando alle polemiche fini a sé stesse!
LORENZO
Dylan Dog 400: albo lungamente atteso, che pone fine al Ciclo della Meteora. I disegni, come tipico in questi celebrativi, sono di Angelo Stano, primo disegnatore del personaggio, con due tavole finali di Corrado Roi che ci proiettano al 401. La sceneggiatura è del curatore Roberto Recchioni, che porta all’estremo il postmodernismo già proprio della testata (e dei celebrativi), tra referenzialismo, citazioni e metalinguaggio. L’ossatura è Cuore di tenebra di Joseph Conrad, tramite Apocalypse Now e The End dei Doors, colonna sonora che apre e chiude l’albo, circolarmente.
L’esordio è in una Londra decadente, sovrapposta alla Wasteland di Eliot, resa in un giallo malato dai colori di Giovanna Niro. Un Dylan immemore si chiede “da quanto è bloccato qui”, “Circondato da quattro mura”: rimando allo spazio della vignetta, alla gabbia bonelliana, alla “recitazione fumettistica”. Convenzioni che vengono deflagrate, anche nel linguaggio fumetto: si rompe la vignetta (con le splash page smarginate), la closure (con un montaggio analogico di alcune tavole) e la quarta parete (coi personaggi consapevoli della loro finzionalità).
In un viraggio cromatico tra il blu e il verde, la salvezza viene da un viaggio marinaresco per le varie “isole narrative”, tra Stevenson (la ricerca dell’Isola del Tesoro), a Shakespeare (la Tempesta, momento che sconvolge l’equilibrio dei personaggi), e l’Odissea. Appare il nuovo “Dylan con la barba” che rende anche più stringente la citazione di Ulisse, “Nessuno”, “uccisore di mostri”, e di “multiforme ingegno”. Con un terzo salto cromatico, il mare diviene quello rosso già apparso nel finale di Spazio profondo, rimando all’Orrore Nero sclaviano e a Solaris di Tarkowskij. Mater Morbi, ultima Caronte, guida col dolore l’eroe allo scontro col suo creatore, che si consuma tra citazioni visuali di Sienkievicz, Miller e Caravaggio. Insomma: operazione radicalmente postmoderna, la cui chiave può essere nella citazione di John Donne. “No man is an island” come allegoria anche del superamento delle “isole narrative” dei singoli albi. Nasce la continuity, si “uccide il padre”, finisce quanto resta dello “sclavismo”. È l’ora dell’Alba Nera del Dylan di Recchioni.
PAOLO
… È l’ora dell’apocalisse!
Il primo fumetto che ho comprato nella mia vita coi miei soldi (non quello che ho letto quindi!) è stato a 12 anni il numero 5 di Dylan Dog Gli Uccisori, ma dopo qualche numero abbandonai l’indagatore di Craven Road per poi recuperarlo con il numero 43 Storia di Nessuno e rimanerci insieme per almeno altri 7/8 anni, poi ci sono state varie fasi di ritorno alla lettura ma sempre in modo saltuario. Ci ho provato anche negli ultimi anni, ma non è più sbocciato l’amore. Ma ad un centenario a colori, disegnato da Stano (ho scelto anche la sua cover) è difficile resistere per giunta in periodo natalizio e allora dopo la perfetta sintesi di Lorenzo mi trovo a farmi delle domande: ma un fumetto deve fare questi mille giri andando a pescare nel grande calderone di archetipi e stilemi della cultura alta e nerd (o altamente nerd?)? Domanda secca la cui risposta apre un bivio che potrebbe portare direttamente a pagina 98: «Non è lecito, ho finito di leggerlo!». Ma con DYD qualche sospetto che le regole non funzionino nello stesso modo ce l’abbiamo… e allora complice la calma (si fa per dire) delle vacanze gli ho concesso il beneficio del dubbio e ho viaggiato con Dylan nella morte del postmoderno, come ironicamente scritto sul cappello di uno scheletro di una Londra devastata. Il citazionismo ipertrofico farà morire di bulimia da riferimenti colti l’icona Dylan Dog? Può essere, ma intanto Recchioni azzarda (o fa solo finta? chissà…) e prova a far saltare il banco issandosi sul piedistallo dell’Autore e spodestando il Creatore (con beneplacito e bacio feudale dello stesso… certo al posto della spada da cavaliere abbiamo un truculento machete, ma del resto è Dyd!). Ma qual è il segno dello stacco più violento? La fine di Tiz? Non credo proprio (del resto ci racconta ‘il domani’…), bensì la conferma della morte di Groucho già sperimentata nel bilottiano mondo di zombie. E – lo devo ammettere – è il fatto più duro da accettare (chissenefega della barba per intenderci). Sarà la fine della comicità e dell’ironia, cortese forma di distacco e quindi di piena conoscenza e accettazione dell’altro? Lo vedr(-emo -anno).
CHIARA
Come Paolo, negli ultimi anni ho avuto con Dylan Dog solo rare frequentazioni (e qui si potrebbero sprecare facili ironie sul fatto che all’Old Boy capiti spesso, con le ragazze). Farsi ingolosire dal centenario a colori, tuttavia, era giocoforza.
Parlando di “citazionismo ipertrofico” che forse “farà morire di bulimia da riferimenti colti l’icona Dylan Dog”, Paolo mi dà l’assist per arrivare a quello che considero il punto nodale.
Dylan Dog, come tutti i personaggi che si sono impiantati stabilmente nell’immaginario collettivo, veste ormai l’abito di “icona”, e alleggerirlo da questa pesante grisaglia è un’operazione necessaria, pena il rischio di trasformare la serie in una forma di accanimento terapeutico. Ho l’impressione che questo, Recchioni, lo sappia bene.
In qualità di Autore, però, si trova dinanzi al dramma tutto post-moderno del già detto, già fatto, già visto. Un secolo dopo Lenin, resta la madre di tutte le domande: “Che fare?” Se il già detto-fatto-visto avevano molto di buono, allora la soluzione non può essere quella di buttare il bambino con l’acqua sporca. Non può essere il parricidio di Tiz. Meglio sguazzarci, nel già detto-fatto-visto. Meglio imparare a far surf sul mare magnum della cultura alta, bassa e nerd in cui ogni autore genuinamente post-moderno rischia di naufragare. Surfare come il Charlie di quella canzone dei Baustelle che citano Cattelan che cita Apocalypse now, a sua volta citato in una canzone dei Clash. Visto? Non si esce vivi, dalla fungaia delle citazioni. Quindi tanto vale trarne le estreme conseguenze, come l’Autore sembra fare. E qui sta uno dei grandi meriti di Recchioni: non teorizza cosa si debba fare, lo fa e basta.
Nella sua puntuale rassegna dei rinvii intertestuali, Lorenzo ha fatto presente la Tempesta shakespeariana. Ecco, io nella buriana in mare aperto ho visto un che di diluviano e veterotestamentario (e inevitabilmente, un che di melvilliano). Più scopertamente neotestamentaria, mi è poi sembrata la prima battuta di p. 61 (“Un tempo… noi eravamo legione!”). Dopo il diluvio, il mondo rimane tale e quale, l’umanità pure, solo è… “redenta”. Magari frastornata. Bisognosa di una bella sbornia come il povero Noè.
GIACOMO
Mmm… L’arca resta a galla. Per me, invece, la nave cola a picco.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
(Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVI)
Con questa citazione del Sommo Poeta inizia il nostro viaggio nell’orrore. Orrore, perché di questo si può parlare riferendoci proprio alle ultime parole dello Sclavi/Kurtz in una parodia di Cuore di Tenebra, che finisce per trasformare macchiettisticamente l’ipercitazionismo di quest’albo.
Non mi dilungherò sul ciclo della meteora, né sulle scelte stilistiche, discutibili o meno, che hanno accompagnato questo tentativo di rivitalizzare la seconda testata fumettistica italiana, ma è un dato di fatto che se si considera questo numero come la degna conclusione di un lungo ciclo, il risultato è profondamente deludente.
Tutti i numeri celebrativi i principali traguardi di Dylan ci hanno raccontato qualcosa di lui, infittendo con nuovi filamenti il fitto arazzo della trama. Nel numero 100, la digressione sui genitori di Dylan, nel 200 l’analisi del rapporto paterno che intercorre tra Bloch a Dylan. In questo 400esimo numero, solo un patetico tentativo di eliminare un ingombrante passato per costruire un nuovo presente.
L’autore, per essere peraltro sicuro di creare ancora di più il caos, non fa altro che infarcire di citazioni ogni singola pagina, da un Groucho in versione Spugna del Peter Pan Disney a richiami a Star Trek, fino al grottesco e forzato risultato di inserire citazioni spiegate in seconda battuta, come se il lettore fosse un povero sciocco incapace di riconoscere anche le più famose di esse.
Il risultato è un’accozzaglia illogica dove la trama si perde sempre di più, per arrivare a portare alla nausea il lettore che cerca con fatica di ricongiungere i fili della stessa.
Non mi dilungo sulla tentata rottura della quarta parete, con un doppio abbattimento della stessa che, se in un caso poteva risultare interessante, nel secondo diventa una inutile ridondanza, portando ad un effetto di rigetto nel tentativo di comprendere cosa sia realtà e cosa no. Di autori capaci di scrivere Golconda ce n’è uno solo, e, se i geni riciclano, come con profonda arroganza l’autore fa dire a Sclavi/Kurtz riferendosi a se stesso, evidentemente non basta per essere delle divinità.
In conclusione, un albo che lascia ben poco, facendo ancor meno sperare per il futuro, affondando come la nave di Ulisse nella tempesta della Hybris.
E voi cosa ne pensate? Ditecelo nei commenti (con toni moderati, mi raccomando!), o venite a parlarne con noi nel gruppo L’avventura a fumetti da A(dam) a Z(agor) o nella pagina facebook o instagram del nostro blog.
0 commenti