La Dottrina di Alessandro Bilotta e Carmine Di Giandomenico

Scritto da Chiara Cvetaeva

11 Mag, 2019

La pubblicazione per Feltrinelli Comics de La Dottrina, opera giovanile di Bilotta e Di Giandomenico, è una occasione ghiotta per rileggere le sempre approfondite riflessioni di Chiara Cvetaeva… ma ovviamente se Chiara apprezza, non può essere troppo lontano anche il parere di Giacomo Mrakic e quindi aspettatevi tra poco anche la sua recensione che sarà meno entusiastica! Il dialogo tra ‘lei’ e ‘lui’ continua sulle pagine di FumettiAvventura!

La Dottrina

 

Soggetto e sceneggiatura: Alessandro Bilotta

Disegni: Carmine Di Giandomenico

“Straripamento”: è la prima parola che mi venga alla mente nel tentativo – difficile, anzi disperante – di definire questo strano affare che mi trovo tra le mani. Lo chiamo “affare” per mantenermi su un tono debitamente imparziale: a voler essere troppo definitori, con La dottrina, si casca male. Parlare di fumetto distopico o di romanzo grafico comporterebbe una banalizzazione che gli autori, francamente, non meritano. Le correnti tematiche, ma soprattutto le correnti stilistiche che danno corpo all’“affare” sono talmente tante, e di una tale impetuosità, da sfondare ogni possibile argine contenitivo. Il lettore ne è travolto, come da un maroso. Cola a picco. Naufraga nel non-senso, o nell’eccesso di significato. Che in fondo è la stessa cosa.

 

Il richiamo al fiorente filone dell’avvenirismo paranoide di 1984, Il mondo nuovo, Le Transperceneige, A skanner darkly, è un dato di fatto incontrovertibile, ma come sempre accade nella migliore letteratura fantascientifica, non si capisce mai in che misura ci si prefiguri il futuro e in che misura si trasfiguri il presente, esasperandone le storture ed estremizzandone le conseguenze. La dottrina ha come suo scenario un mondo in cui l’intero corpo sociale si è compattato in un Interno, in un organismo per il quale ogni agente esogeno costituisce una minaccia infettiva. Il braccio armato di questo regime totalitario e tecnocratico (nel quale sembrano oggettivarsi le più deliranti, febbrili e bellicistiche visioni del Futurismo italiano) fornisce gli anticorpi necessari per contrastare non solo la minaccia esogena, ma anche quella endogena: le cellule cancerose di questo Organismo vanno annientate, e le scorie espulse. Come in ogni corpo, anche in questo vige una precisa gerarchia anatomica tra le varie membra: alla testa, o meglio al timone, un Nocchiere che tutto vede e da nessuno è visto; il braccio armato occupa una posizione di assoluta preminenza e di uguale prestigio godono poi gli ideologi, gli “intellettuali organici”, coloro che insomma hanno asservito le loro risorse creative alla causa dell’ordine costituito. Quanto agli altri, non sono che bassa manovalanza, forza-lavoro subalterna, buona a mantenere la macchina in moto.

 

Su tutti spira un’aria di narcosi: ciascuno si muove come morfinizzato entro un sistema di indottrinamento ben rodato, in cui il cittadino pensa nel modo in cui è stato educato a pensare. La trasparenza è il primo dovere civico di chi risiede nell’Interno. L’opacità dei pensieri, l’immaginazione, è per converso un crimine di rilevanza penale. Che l’immaginazione possa essere una colpa addirittura delittuosa non è, di per sé, un fatto nuovo. In quel magnifico romanzo che è Invito a una decapitazione, Vladimir Nabokov (in fuga dalla falce e dal martello dei bolscevichi al potere) satireggiava il regime staliniano narrando la storia di Cincinnatus, condannato alla pena capitale con l’accusa di “turpitudine gnostica”, ovvero di “pensiero torbido”, non immediatamente interpretabile.
Una società così concepita e strutturata sembrerebbe riprodurre con esattezza millimetrica lo Stato tratteggiato da Platone sul finire del VII libro della Repubblica: «la legge si adopera perché [il bene] si realizzi nella città intera, armonizzando i cittadini con la persuasione e la costrizione e obbligandoli a mettere in comune tra loro l’utile che ciascuno è in grado di fornire alla collettività; la legge stessa forgia cittadini simili non per lasciarli liberi di volgersi dove ciascuno vuole, ma per creare tramite loro il vincolo che tenga la città unita». Il Platone della maturità (in particolare quello del VII libro della Repubblica, scopertamente citato con il richiamo al mito della caverna) non è che uno dei mille e più rimandi che il lettore particolarmente occhiuto può trovare (o convincersi di trovare) ne La dottrina: sul finale, con le meningi ormai sfibrate, mi è parso addirittura di vedere il Mago di Oz.
Il fascino e la difficoltà di quest’opera nascono forse dall’ambizione che ne fa vibrare le corde più profonde: rendere sul piano della forma come su quello del contenuto l’inesauribile varietà del mondo reale. Le strategie di cui quest’ambizione si serve sono: 1) la polifonia, vale a dire la narrazione rimessa a più voci; 2) un pluristilismo con punte di spericolatezza, che si risolve in un’orgia visiva di dimensioni inusitate, nella quale la spigolosità si ingentilisce e arrotonda da una tavola all’altra, il tono fosco si stempera e rischiara in un battito di ciglia, il rigore geometrico degli spazi urbani si fa d’improvviso più lirico e sognante negli scenari en plein air.

Ma torniamo alla polifonia: sono molti i personaggi che calcano la scena, e tanti possono a buon diritto reclamare il ruolo – se non di protagonisti – almeno di comprimari. Ne viene fuori una felice gazzarra. Una riuscita disarmonia, arrangiata ad arte da due direttori d’eccezione, che riescono nella difficile impresa di coordinare quest’orchestra bislacca, fatta soltanto di primi violini. Il tutto, naturalmente, è predisposto a tavolino: non mancano intermezzi “metafumettistici”, in cui ci si domanda cosa sia il fumetto in sé e per sé, concludendo che si tratta del solo medium in cui il sistema di decodifica verbale e quello di decodifica visiva possano fare lega l’uno con l’altro, potenziandosi a vicenda (già nel ’91, un docente di psicologia dell’University of Western Ontario, Allan Paivio, aveva formulato la dual coding theory, secondo cui lo stimolo visivo e quello verbale, agendo simultaneamente, amplificano la percezione della realtà, e di conseguenza la sua comprensione). La pluralità dei codici è riconfermata dalla maschera della Smorfia, che per un attimo lascia balenare il miraggio di un cambiamento, di uno scuotimento dalla narcosi di massa. La maschera che, nella tradizione napoletana, dispensa i numeri vincenti al lotto, secondo molti sarebbe tributaria della cabala, e delle associazioni che questa stabiliva tra il codice numerico e i referenti della realtà. Numeri e parole, non a caso, vengono maneggiati secondo un principio di intercambiabilità: a ogni cifra corrisponde un concetto verbalmente espresso. Anche la numerazione delle pagine (che sul finire traspone in lettere i numeri arabi) risponde a questo convincimento.
Bilotta e Di Giandomenico non si limitano ad abbattere la quarta parete: sfondano anche i tetti. Ricorrenti sono infatti le vignette in cui gli interni delle stanze da letto sono mostrati dall’alto, come se qualcuno dai piani superiori stesse sorvegliando, magari attraverso uno schermo. Filippo Tommaso Marinetti, d’altro canto, amava le “vedute aeree” e il nesso che La dottrina stabilisce col Futurismo non è certo “di maniera”. Anzi: è qualcosa di profondo, quasi di ombelicale.

 

Nel febbraio del 1909, Marinetti licenziava il primo Manifesto del Futurismo italiano. Mi piace credere che la scelta del 2019 per questa riedizione in unico volume non nasca da un caso fortuito.
La stessa introduzione, con la sua libertà tipografica e i suoi toni squillanti e guerrafondai occhieggia al miglior Marinetti, quello di Zang tumb tumb, quello che tuonando contro una concezione troppo passatista e bodoniana della pagina stampata, andava a ricercare soluzioni tipografiche che compiacessero la sua “immaginazione senza fili”.
Altre spie lampeggiano nel testo su quest’intima interrelazione col futurismo: anzitutto la Terapia di Perelà, il percorso terapico che si sviluppa per tappe lungo tutta l’opera, e che riporta con la memoria a quell’arcicapolavoro che è Il codice di Perelà, il romanzo sperimentale di Aldo Palazzeschi, nel quale lo stesso Marinetti aveva visto la concretizzazione della più pura prosa futurista.
Marinetti, a ogni modo, resta la figura nodale: proprio lui che da pazzo incendiario si era fatto Accademico d’Italia. Proprio lui che, da cane sciolto con le zanne bene in vista, s’era fatto fedele molosso del regime fascista. Marinetti personifica appieno l’idea di una rivoluzione abortita. Ed anche di questo ci parla La dottrina. L’etimologia spesso rivela l’ironia che soggiace ai processi di derivazione verbale: la rivoluzione intesa come “sovvertimento violento dello status quo” nasce quale prestito dall’astronomia, laddove il lemma designa il moto che la terra e gli altri pianeti compiono annualmente intorno al sole. È un moto che si risolve in un giro a vuoto, in cui il punto di partenza è coincidente con l’approdo. E come non cavarne una sconfortante verità? La Rivoluzione non può che esser questo: un circoletto demenziale.
Mi fermo per tempo, prima di fare di questa recensione un’esegesi. E raccomando a coloro che non hanno ancora letto l’opera di non incorrere nel mio stesso errore: una lettura rabdomantica, ossessionata dall’andare troppo in profondità, è controproducente. La dottrina non ha bisogno di essere sventrata perché la si apprezzi. Anche una lettura “in superficie” è sufficiente. E lo dico forte della convinzione che all’arte basti semplicemente specchiarsi sulla superficie della realtà per ritrovare, tutt’intero, il proprio riflesso. E viceversa.

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