Ne Lo stato delle cose (il film che nel 1982 valse un Leone d’Oro a Wim Wender) c’era una battuta memorabile, che suonava pressappoco così: “Le storie esistono solo nelle storie”.
Il concetto è ben espresso, ma specioso: mai farsi fregare da una frase solo perché suona bene. L’incredibile sa benissimo come aprirsi brecce nella realtà. Ce lo insegnano quei fatti di cronaca ordinaria dalla portata straordinaria. Ce lo insegna “la storia vera” di Marinella, eternata non so se più dalle parole di Faber o dall’esecuzione di Mina.
Che la prima didascalia di Ettore e Fernanda (Coconino Press) ammicchi a una canzone tanto nota e tanto amata del repertorio cantautoriale italiano non crea stupore, negli estimatori di Bacilieri. In questo repertorio, l’autore sguazza da sempre felice e beato, come un ranocchio nel suo pantano, come un Creso nel suo oro.
Almeno ai miei occhi, è denso di significato che le storie delle nuvolette possano trovare una sponda nelle storie delle canzonette: l’epica, e con l’epica il gusto stesso di raccontare, è nata in seno all’oralità. Raccontare significava eseguire. Eseguire significava musicare. Se sullo stesso piatto servi il racconto, la musica e il disegno, ecco raggiunto il massimo grado della pregnanza espressiva. Vedi la storia, senti la storia, leggi la storia. Un piccolo miracolo che i buoni fumetti sanno compiere da anni, senza troppo strepito e senza trionfalismi.
Ma torniamo alla sventurata Marinella. La sua “storia vera” aveva dell’incredibile e con altrettanta incredulità potremmo stare ad ascoltare la “storia vera” di Ettore Modigliani e Fernanda Wittgens.
Qui tutti potremmo cadere dal pero e domandarci da Don Abbondi del ventunesimo secolo: “Ettore e Fernanda, chi erano costoro?” Se la risposta ci sfugge, non ne abbiamo gran colpa: i nostri Carneadi non erano che funzionari, burocrati, ciarpame accademico e museale. Però proprio in queste vesti hanno compiuto gesta temerarie, dando prova del miglior eroismo: quello anonimo e del tutto involontario.

Corre l’annata nera del 1929. Ettore Modigliani, già direttore della Pinacoteca di Brera, riceve l’incarico di censire, radunare e condurre a destinazione i capolavori dell’arte italiana che saranno esposti a Londra nella storica mostra di Burlington house. Il direttore è già affiancato dalla “salariata” Fernanda Wittgens, che sin dalla sua prima apparizione vediamo piccola, umile e modesta, incurvata e fasciata dentro il suo soprabito.
La messe delle opere raccolte sarebbe stata trasferita a Londra via mare, stivata nel piroscafo Leonardo da Vinci. E proprio con la fortunosa traversata atlantica prende le mosse la narrazione, con un prologo di 8 tavole in cui non c’è un elemento – dicasi uno – che sia stato rimesso al caso. C’è questo piroscafo sbatacchiato dalle onde di un mare in burrasca. Leggiamo in didascalia la rivisitazione del primo verso di Canzone di Marinella. Poi vediamo, in basso a sinistra, il riquadro con la botticelliana Nascita di Venere. Mescolando tutti gli ingredienti, si ricava una pietanza gourmet: felicissimo il richiamo a Marinella, scivolata in un fiume a primavera; felicissimo il richiamo a Venere, nata dalla spuma delle onde al largo dell’isola di Cipro; ancor più felice il richiamo a quella Venere lì, imballata e accatastata nella pancia del piroscafo vinciano.

Non c’era modo migliore d’aprire le danze, che nei 5 capitoli a seguire andranno infatti in crescendo. L’allestimento della leggendaria mostra londinese non esaurisce il racconto, che prosegue con l’impresa titanica di Fernanda: salvaguardare il posseduto artistico di Brera e della città (n.b., a lei si deve il restauro del Cenacolo di Santa Maria delle Grazia) dai bombardamenti tedeschi del 1943.
La forza della narrazione sta nella sua polifonia: Bacilieri non si contenta di raccontare. Compie un’operazione di spericolato decoupage: la trama s’intesse dei diari scritti da Modigliani sulla Leonardo da Vinci, delle testate dei giornali d’epoca, delle lettere di Fernanda e, non da ultimo, della voce dell’autore, confidenziale e dimessa come quella di un vecchio crooner. Il decoupage non si arresta qui: sono i versi di Salvatore Quasimodo a commentare le vignette con le macerie dei bombardamenti; è la canzone popolare Tutti mi chiamano bionda, che una voce fuori campo intona sulle rovine di Milano, a far intuire il lavorio paziente e fiducioso che avrebbe portato alla ricostruzione.

Si è detto di Ettore e si è detto di Fernanda, ma ancora una volta è la Città l’anima più vera della storia. La resa degli incanti braidensi raggiunge un tale livello di precisione da sembrare incisa col bulino. Pure le natiche erculee di Napoleone (che, da vero immodesto, s’era fatto scolpire da Canova come Marte Pacificatore) sono raffigurate con un lavoro di fino. Quello che più sorprende e in un certo senso sconcerta di questa precisione è la sua forte impronta autoriale: in molti potrebbero riprodurre con esattezza e fedeltà il cortile d’onore del Palazzo di Brera, o il Duomo visto dalla Loggia dei Mercanti. Ma Bacilieri conserva sempre una sua, personalissima maniera di essere fedele ed esatto (come dimostra anche nel recente Tramezzino).
Un ultimo, breve inciso, merita la scelta del formato. Si tratta di un comunissimo formato ad album. Roba, insomma, da studenti di accademia delle Belle Arti.
Proprio a costoro mi piace pensare, e a tutti quelli che intendono l’arte e la bellezza come militanza, come engagement, come missione nel mondo.
Ettore e Fernanda non è solamente un libro sull’arte. È, nella “sua, personalissima maniera”, un libro d’arte.
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